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Quando abbiamo smesso di rispettare le istituzioni?

Insulti, ignoranza delle regole, mancanza di rispetto: quando abbiamo smesso di rispettare le istituzioni?

I social network sono una fonte inesauribile di spunti di riflessione. Nel bene e nel male, internet dà a ciascuno lo stesso spazio di espressione, e potenzialmente gli stessi mezzi per raccogliere consensi o muovere menti. I social network sono le agorà del nostro secolo, piazze di condivisione, i nuovi bar sport e le nuove “chiacchiere da parrucchiera”. Da quando i social sono diventati centrali e insostituibili nelle vite di tutti, vengono osservati con grande attenzione.

I contenuti dei social network possono essere studiati come da un campione imparziale di una popolazione. Una community virtuale può facilmente rappresentare un microcosmo che rispecchi le caratteristiche di un bacino d’utenza più ampio e reale, fisico. Dovremmo forse pensare che quello che succede nei social è davvero quello che accade nella realtà? E se sui social ci prendiamo delle libertà che non ci prenderemmo nella vita reale, significa che reprimiamo i nostri impulsi per sfogarli nell’anonimato della rete?

Tutta questa premessa vuole arrivare a due recenti cronache social, lontane nel tempo, per gli standard del XXI secolo, ma collegate da un filo rosso: abbiamo smesso di rispettare le istituzioni. Ad un certo punto nella storia recente, la fiducia nel sistema è crollata e l’autorevolezza delle istituzioni si è sgretolata. Sicuramente è frutto di campagne politiche ben studiate e movimenti di piazza di partiti anti-establishment, che hanno alimentato la sfiducia nel sistema, e probabilmente tante volte avevano le loro buone ragioni. Poi, piano piano, post dopo post, tweet dopo tweet, video dopo video, commento dopo commento, le istituzioni hanno perso tutta la loro credibilità agli occhi dei più. E quindi i giornali sono di parte e dicono bugie, le aule del parlamento sono piene di disonesti attaccati alla poltrona che fanno solo i loro interessi, gli enti nazionali forniscono opinioni assoggettati da logiche politiche, e così via.

Insulti alle istituzioni e sfiducia nel sistema, i social come cloaca di libera espressione.

Arriviamo così al primo capo del nostro filo rosso, con un episodio significativo di cronaca social. Nei giorni precedenti all’insediamento del governo gialloverde, il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella è stato il bersaglio favorito degli insulti di chi gli attribuiva la colpa dell’impasse istituzionale. Per quelle poche ore in cui sembrava che l’incarico sarebbe stato affidato a Cottarelli, poi, gli insulti si sono moltiplicati contro il Capo dello Stato.

“Muori bruciato vivo”, “Comunista schiavo di Bruxelles”, “Mafioso di merda, da fucilare subito”, “Ipocrita antitaliano” e “venduto come Cottarelli”. E ancora, “Fottuto giudeo, crepa”, “Mattarella muori porco infame leccaculo è schiavo . Comunista !”, “mattarella mafioso di merda”.

Al di là della validità delle ragioni che possono muovere lo scontento, le reazioni su internet sono chiaramente spropositate e sproporzionate. E non solo, secondo il giudice Fabio Roia, presidente della sezione misure di prevenzione del Tribunale di Milano, “Gli attacchi violenti e irresponsabili ricevuti dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella possono integrare anche ipotesi di reato”.

In questo caso, dei privati cittadini, forti dello scudo a cui a volte un computer può assomigliare, hanno insultato il massimo delle istituzioni del nostro paese, sperando di passare inosservati. Nel loro piccolo, questi cittadini hanno dato ulteriore voce a un sentimento che nel marasma di internet si respira già da tempo, quello della completa sfiducia nelle istituzioni.

Dal privato al pubblico: se la mancanza di rispetto per le istituzioni viene dalle istituzioni stesse.

L’altro evento social, all’altro capo del filo rosso, ha solo poche ore di vita. Il ministro dell’Interno e vicepremier Matteo Salvini ha postato un video sul suo profilo Facebook, in cui mostrava alcuni istanti a Palazzo Madama. Il video mostra dei deputati del Partito Democratico che sollevano le copertine dell’ormai famoso numero di Democrazia Cristiana, in cui Salvini viene accostato a Satana.

Il vicepremier, allora, ha iniziato a filmare la scena, con il sorriso di chi già pregusta l’indignazione da tastiera che avrebbe scatenato, con la frase giusta per aizzare gli animi, che lui non ha mai avuto difficoltà a trovare. Tutto bene, se non fosse che di sottofondo di sentiva una voce che intimava il ministro degli Interni a mettere via il cellulare, che fare foto era proibito, perché quelle erano le regole, ed erano state imposte a tutti in modo uguale. “Non si può fotografare ministro, in aula non si può fotografare”, intimava la voce invano.

“Ma quanto vi fanno ridere quelli del Pd che protestano in aula con la copertina su Salvini-Satana???
Li ho fotografati per voi”, scrive sui social Matteo Salvini, a commento del video. Quasi come se si volesse vantare di aver infranto le regole della Repubblica, per una causa giusta. Come suo solito, Salvini preferisce passare il messaggio che lui non si abbassa a certe scaramucce di poco conto, e risponde alle obiezioni con un sorriso, una foto vicino a un fiorellino, e un bel selfie dal successo social assicurato.

L’esempio deve venire, prima di tutto, dalle “istituzioni democratiche di questo paese”.

“Nell’era della riproducibilità tecnologica ad oltranza, il confine – anche linguistico – tra privato e pubblico è diventato sempre più labile, consentendo il continuo sconfinamento della prima sfera nella seconda. Il privato, insomma, è diventato pubblico”, scrive Giuseppe Antonelli in Volgare Eloquenza. “Il confine tra pubblico e privato coincide con quello tra formale e informale e quindi condiziona pesantemente la scelta del registro espressivo”. Eppure “«L’inputato non è la lingua, che è sempre ricca e dunque impura», scriveva Francesco Merlo quello stesso giorno, «ma è il collasso dei valori che nella lingua si trasmette». Primo tra tutti, il valore delle istituzioni.”

Qui Giuseppe Antonelli parla di linguaggio, ma il ragionamento vale anche per le azioni, con particolare riferimento alle due cronache social menzionate sopra. Quando abbiamo smesso di rispettare le istituzioni, e perché? Ma soprattutto, perché un privato cittadino dovrebbe ritrattare la sua sfiducia nei confronti del sistema, se sono gli stessi rappresentanti delle istituzioni a non rispettarne le regole, vantandosi tronfiamente sulla pubblica piazza virtuale?

Nel frattempo, nell’altro piatto della bilancia legislativa della nostra Repubblica, Emma Bonino parlava ai colleghi senatori. Durante il suo discorso, in aula si sono levati gridi di protesta e insulti. “Non è possibile che un’unica o pochissime voci che sono in disaccordo debbano ottenere minacce, insulti e mancanza di rispetto, anche in quest’aula”, ha detto la leader di Più Europa. “Vi ricordo che non siete alla curva sud, siete nell’aula più alta delle istituzioni democratiche di questo paese. Voi dovete dare l’esempio di compostezza istituzionale, di rispetto per le opinioni diverse. E trattenete gli insulti, perché, ha detto qualcuno molto più importante di me, che gli insulti qualificano chi li fa, non chi li riceve”.

 

Di A.C.

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