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Morte di Stefano Cucchi, l’Arma: “Pronti a essere parte civile nel processo”

 

In aula è atteso il carabiniere Francesco Tedesco, che alcuni mesi fa aveva confessato il pestaggio ai danni del detenuto, da parte di alcuni suoi colleghi. E nello stesso giorno, Ilaria Cucchi, sorella di Stefano, rende nota una lettera, nella quale l’Arma dei carabinieri si dichiara pronta a costituirsi parte civile nel processo.

Per l’omicidio del giovane sono imputati tre carabinieri, già sospesi dal servizio, ma a breve altri carabinieri verranno indagati per i reati di falso e favoreggiamento. Secondo la procura, infatti, con i loro comportamenti, 8 militari dell’Arma avrebbero depistato e ostacolato le indagini, come ricorda il Corriere della Sera.

La lettera, indirizzata alla famiglia Cucchi e resa nota su Repubblica, è datata 11 marzo ed è stata scritta dal generale Giovanni Nistri, comandante dell’Arma dei carabinieri: “Crediamo nella giustizia e riteniamo doveroso che ogni singola responsabilità nella tragica fine di una giovane vita sia chiarita, e lo sia nella sede opportuna, un’aula giudiziaria”, scrive il generale.

Il pensiero di Nistri va alla sofferenza della famiglia, che oltre alla morte di un proprio caro, ha dovuto anche affrontare l’attesa della verità e della giustizia, che tuttora sta facendo il suo corso. Ma, aggiunge il generale, “mi creda: abbiamo la vostra stessa impazienza che su ogni aspetto della morte di Suo fratello si faccia piena luce e che ci siano infine le condizioni per adottare i conseguenti provvedimenti verso chi ha mancato ai propri doveri e al giuramento di fedeltà”. Il caso di Stefano è complesso e l’accertamento della verità richiede tempi lunghi, perché sono state fatte una serie di perizie e dichiarazioni discordanti, con l’alterazione di alcuni documenti. Il generale, insieme ai“tanti colleghi, oltre centomila, che ogni giorno rischiano la vita”, ipotizza la possibilità di chiedere l’autorizzazione a costituire l’Arma parte civile nel processo per depistaggio agli otto militari, nel caso in cui possa definirsi parte lesa, nella richiesta di rinvio a giudizio, perché “soffriamo nel pensare che la nostra uniforme sia indossata da chi commette atti con essa inconciliabili e nell’essere accostati a comportamenti che non ci appartengono”.

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