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Il male di vivere e quei drammi familiari che possono spingere all’omicidio

 

La polizia piantona in ospedale il cinquantenne che a Molassana ha ucciso il padre di 90 anni, non autosufficiente, e poi ha cercato di uccidersi gettandosi dalla finestra, riportando ferite gravi, ma non mortali. La società non gli ha fornito aiuti, infermieri, denari, per sostenerlo nella lotta quotidiana nell’assistenza al suo vecchio, ma trova i mezzi per sorvegliare con i carabinieri la sua stanza d’ospedale, accorgendosi di lui solo adesso perché è accusato d’omicidio. Ma è un omicidio o un suicidio, un gesto di pietà o di disperazione? Siamo di fronte a una rivolta tragica contro il male della vita, alla condizione di impotenza in cui si trovano migliaia di persone che consumano ogni giorno forze, risorse, salute nell’assistenza ad altre che la malattia, perlopiù la vecchiaia, molto spesso anche la demenza inchiodano a una sopravvivenza senza speranze, senza dignità e non di rado senza coscienza.
Vittime le une non meno delle altre della peste del nostro tempo: la vita biologica che continua senza senso, oltre quella della ragione. La società cerca di nasconderselo: ma sta cambiando il modo di considerare la vita, ora che il suo prolungamento e l’aumento delle malattie degenerative fanno sì che molte persone la trascinino per anni in un degradante stato di devastazione fisica e mentale e quelle che le assistono in una angosciata prostrazione. Se ci si affaccia sull’universo parallelo, qui in Liguria particolarmente affollato, delle demenze senili, della totale impotenza a provvedere a sé stessi, si entra nel girone infernale in cui soffrono tanto i malati quanto i loro parenti, vittime crocifisse le une alle altre, che solo pochi, umili, quasi sempre premurosi e affettuosi addetti (moltissimi stranieri) sostengono con dedizione e professionalità.

È una condanna che mentre scempia il corpo dei pazienti devasta l’anima dei loro congiunti, tanto che non sai quali ricevano la condanna peggiore: il padre demente ucciso o il disperato figlio uccisore? La fatica è enorme e, nonostante le pie e rispettabili illusioni di qualcuno, nessuna consolazione viene da gesti senza speranza. Non c’è alcuna luce nel regno delle ombre in cui si agita solo una larva di vita, mantenuta in funzione da quella che Dante chiamava l’anima vegetativa, l’istinto della pura, biologica sopravvivenza, e (ma non sempre) da quella cosiddetta sensitiva, sede di bisogni elementari e non negoziabili e delle residue emozioni, ma priva di quella razionale, un tempo ritenuta sede dell’anima immortale, della ragione senza la quale l’uomo non è più tale.

La nostra società paga il suo bando alla vera morte, che rimanda e nasconde sempre di più alla vista, subendone per anni una copia ben visibile, ancor più ripugnante e non meno dolorosa. Quando non ci sono, non ci possono più essere attese, ancorché minime; quando è fuggita la conoscenza ed è svanita la memoria; quando è saltato il controllo del corpo, le desolate vittime di questa pestilenza incomprensibile e incurabile entrano e spesso restano per anni in una premorte umiliante, straziante per i loro cari, distruttiva per le loro famiglie, corpi con bisogni e senza raziocinio, degni di pietà e impietosi, bisognosi di avere tutto e spesso incapaci di dare alcunché, se non disperazione e desolazione in chi se ne prende cura.

Nelle case di riposo, nelle famiglie che assistono qualche malato di questo tipo tocchi con mano come la vita possa essere o diventare un puro male, una persistenza senza scopo, che devasta anche quelli che cercano di proteggerla. La società si è fatta un alibi dell’intellettualistica trasformazione dei malati di mente in diversamente abili per chiudere le strutture di pubblica assistenza e non le ha sostituite con niente, scaricando i disabili di corpo e di mente sulle famiglie. Unica alternativa i cronicari, quasi tutti privati e a spese dei ricoverati ( perché la Regione aiuta un numero chiuso di persone, in fila ad aspettare che muoia quella davanti per accedere a un sostegno), dove si combatte con strenua dedizione una battaglia già persa, gli unici luoghi cui possono bussare ( se hanno qualche quattrino) le vittime di quel buco nero di solitudine, angoscia e dolore in cui maturano, quando si è soli o poveri, gesti disperati come quello di Molassana.
Un tempo si pensava che la cognizione del dolore fosse la consapevolezza dell’umana finitudine e qualcuno arrivava ad uccidersi per la paura di morire. Oggi invece si pensa che nasca dalla consapevolezza del rischio di una vita senza fine e senza decoro, e comincia ad esserci chi si uccide e uccide per la paura di vivere.

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