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Attivista italiana si unisce alla protesta in mare di Greenpeace per fermare le trivellazioni di Shell

Nonostante il tentativo di Shell di fermare con un’ingiunzione e la minaccia di carcere e multe l’occupazione pacifica di una sua piattaforma da parte di quattro attiviste e attivisti di Greenpeace International, la protesta nonviolenta dell’organizzazione ambientalista, in corso dal 31 gennaio, non si ferma. Altri due attivisti sono infatti riusciti a salire a bordo della White Marlin, la nave da carico che trasporta la piattaforma per l’estrazione di combustibili fossili del colosso energetico, mentre un gruppo di altri attivisti, tra cui l’italiana Noa Helffer, sostengono la protesta a bordo della nave Merida, mostrando banner con i messaggi “Basta Trivellare. Iniziate a pagare” e “Pianeta in fiamme. Basta fossili”. 

Attiviste e attivisti chiedono che Shell interrompa l’espansione della produzione di petrolio e gas, si assuma la responsabilità per aver contribuito ad alimentare la crisi climatica e paghi per i danni ambientali che sta causando. Questa escalation nell’azione di protesta nonviolenta arriva dopo che giovedì 2 febbraio Shell ha annunciato profitti record per 39,9 miliardi di dollari.

«Sappiamo che la crisi climatica sta colpendo più duramente i Paesi che hanno meno colpe, e in Europa siamo solidali. Vivendo in Sicilia e nonostante la mia giovane età ho già avuto esperienza di inondazioni che ti fanno arrivare l’acqua fino al petto, alternate a periodi di siccità tali che ai nostri agricoltori hanno lasciato solo le foglie secche», dichiara Noa Helffer, attivista italiana. «E se la crisi climatica non bastasse, a questa si è aggiunta la crisi energetica che ci sta impoverendo, dato che viene affrontata con sistemi ancora dipendenti dalle fossili. In inverno ci congeliamo nelle nostre case, mentre il nostro governo ci chiede di fare sacrifici, e in estate soffriamo il caldo. E con il caro bollette è sempre più difficile per le persone tirare avanti. È ora che chi inquina paghi per tutto questo».

«Non permetteremo a Shell di metterci a tacere. Siamo qui perché il mondo ha bisogno di conoscere i loro piani criminali per continuare a devastare il clima senza pagare un centesimo per riparare ai disastri a cui assistiamo ormai ovunque nel mondo», dichiara l’attivista tedesca Silja Zimmermann. «Nel mio Paese le inondazioni del 2021 hanno ucciso 180 persone, con costi di ricostruzione pari a 30 miliardi di euro. Quando è troppo è troppo. La Shell deve smettere di trivellare e iniziare a pagare».

Nella tarda serata di venerdì 3 febbraio, Shell ha ottenuto un ordine del tribunale “ex parte”, il che significa che a Greenpeace non è stato dato alcun preavviso, né la possibilità di difendersi. Questo mina l’equità del processo legale. La richiesta di ingiunzione prevede che i quattro attivisti a bordo della piattaforma concordino un piano con il capitano della White Marlin per sbarcare in sicurezza, e che la nave Sea Beaver, battente bandiera britannica, la Arctic Sunrise, battente bandiera olandese, e le loro imbarcazioni restino al di fuori di una zona di esclusione di 500 metri intorno alla nave White Marlin. La Merida e altre due piccole imbarcazioni che stanno supportando la protesta di Greenpeace non sono invece incluse nella richiesta di ingiunzione.

La piattaforma, trasportata dalla nave White Marlin, è un’infrastruttura chiave per la produzione di petrolio e gas che consentirà a Shell di aprire otto nuovi pozzi nel giacimento petrolifero Penguins, nel Mare del Nord. Bruciare tutto quel petrolio e gas produrrebbe 45 milioni di tonnellate di CO2, più delle emissioni annuali della Norvegia. Tra il 1965 e il 2018, Shell è stata responsabile di emissioni di CO2 dieci volte superiori a quelle delle Filippine. L’azione di oggi è l’ultima di una serie di proteste pacifiche di Greenpeace contro Shell. 

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