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Atletica, il lato oscuro del Kenya: verso le olimpiadi con l’ombra del doping

Salvo imprevisti dettati dal Covid-19, nei prossimi mesi sentiremo parlare di Olimpiadi. L’altra faccia della medaglia è il fenomeno del doping, su cui il Kenya non ha mai dato certezze.

Le medaglie sono tante, ma hanno sempre due facce. Da un lato c’è il Kenya protagonista nell’atletica, con tutti i suoi uomini venuti dagli altipiani e condannati a un podismo di successo; dall’altro c’è il Kenya associato al buco nero del doping, un’ombra fedele che ne offusca l’immagine e alimenta i sospetti.

I riflettori sulla nazione africana sono sempre accesi, soprattutto ora che incombono i Giochi Olimpici (a Tokyo, dal 24 luglio, salvo slittamenti già previsti a causa del coronavirus). Speculazioni, dubbi e l’ennesimo esame da superare perché «la presunzione di innocenza degli atleti keniani è fortemente in discussione» come annunciò la Wada (Agenzia mondiale antidoping) a ridosso delle Olimpiadi di Rio 2016, quando gli africani furono dichiarati «non conformi ai principi sulla lotta al doping» e rischiarono l’esclusione di massa.

Da lì è iniziato un percorso di redenzione, anche se la piaga resta aperta come emerso da un’inchiesta condotta dall’agenzia France Press direttamente a Eldoret, nella Rift Valley, la roccaforte mondiale dei podisti. Un luogo ideale per allenarsi ai 2500 metri d’altitudine, ma anche lontani da occhi indiscreti. Un farmacista del luogo ha raccontato quanto sia facile procurarsi sostanze dopanti importate dall’India, come l’Epo, sulla carta destinata a curare pazienti affetti da anemia: «Non chiediamo ricette, non ci sono controlli troppo approfonditi. Solo io ho almeno 18 clienti, gli atleti non vengono mai di persona, ma tramite amici. Conosco altre due farmacie in città che hanno il mio stesso traffico. Basta pagare, qui con la corruzione che c’è con i soldi puoi fare tutto». 

Quel fantasma non solo esiste, ma continua a mietere vittime anche a livelli più alti, come il plurimedagliato sui 1500 metri Asbel Kiprop, beccato positivo all’Epo, o Jemima Sumgong, che in Brasile fu la prima donna keniana a vincere l’oro olimpico nella maratona, salvo poi cadere nella tentazione dell’eritropoietina l’anno dopo. L’ennesimo caso ha coinvolto anche Salome Jerono Biwott, positiva al norandrosterone, tra l’altro per la seconda volta in carriera. Anche per dimostrare che i fari sono più accesi che mai, la Wada ha pubblicato un rapporto per fare il punto sui progressi del Kenya alla lotta al doping e il quadro è preoccupante: oltre 140 atleti positivi negli ultimi 15 anni, di cui 41 tuttora sospesi, e una forte tendenza all’uso di corticosteroidi, anabolizzanti e l’immancabile Epo.

Così la morsa ha iniziato a stringersi. Dai soli 100 test antidoping del 2016 ai quasi 1600 dell’anno scorso, cui ha fatto seguito l’introduzione del passaporto biologico per i livelli più alti e l’apertura di un laboratorio specializzato a Nairobi sotto il controllo di Wada e Iaaf. Inoltre l’agenzia nazionale antidoping del Paese ha lanciato la campagna “Stay Clean, Win Right” per sensibilizzare atleti, allenatori e staff medici. Da Rio 2016 il Kenya ha portato a casa 6 medaglie d’oro, altrettante d’argento e una di bronzo. Un bottino olimpico mai così ricco, per l’atletica leggera secondo soltanto agli Stati Uniti. Ma le ombre restano, così come la doppia faccia di quelle medaglie.

Di A.C.

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