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Baratro Europa

Sembrava che la crisi economica fosse definitivamente alle spalle e invece no; trascinata dai cosiddetti PIIGS, l’Europa pare prossima al tracollo. Peraltro, questa volta non siamo alle prese con l’andamento ciclico tipico dell’economia di mercato, ma con il problema del debito pubblico. Alcune società di rating, infatti, stanno declassando le finanze pubbliche di alcuni Paesi del Vecchio continente, trascinando nel panico borse e politici comunitari. Sia notato solo di volata il curioso fenomeno che a giudicare i debiti pubblici siano società private, le stesse che definivano molto attendibili Parmalat e Lehmann prima dei rispettivi tracolli. Ma il problema c’è e va analizzato su tre piani di portata crescente: il debito pubblico, la moneta unica, l’Europa. Infatti, il siparietto in corso sui disavanzi mediterranei spalanca la porta su questioni ben più vaste.
Allarmarsi per il debito pubblico ha di per sé del ridicolo. Diceva Mises nel secondo dopoguerra: «La crisi monetaria, il problema monetario che il mondo fronteggia oggi, è dovuto al fatto che i governi pensano di essere liberi di fare ciò che vogliono riguardo alla moneta. Non solo gli individui talvolta non rispettano le promesse fatte, ma i governi fanno lo stesso. Essi hanno sempre usato ogni metodo possibile per tentare di evadere la necessità di pagare quanto promesso». Ogni persona di buon senso sa che non esiste debito che non si debba restituire. Purtroppo, sessant’anni di politiche di deficit spending, abusando delle giustificazioni keynesiane, hanno inasprito la tendenza debitoria insita nei governi dalla notte dei tempi. Vorrei insistere su un punto: porre l’accento sulla scarsa affidabilità dei titoli del debito pubblico di alcuni Paesi è del tutto fuorviante e può prestare solo il fianco a interessate manovre di speculatori e FMI. Il problema vero è un altro: è ora di smettere di credere che si possa condurre la politica in deficit. Uno Stato indebitato è uno Stato schiavo dei suoi creditori. Nei decenni, i governi hanno accumulato consensi riversando su macro e micro politiche economiche clientelari soldi presi a prestito dalle mani di qualche usuraio d’alto bordo. E adesso qualcuno chiede il conto. Solo un ingenuo si meraviglierebbe di ciò.
Secondo punto: l’Euro. Aristotele l’aveva capito e Carl Menger l’ha sistematizzato nel 1892: un bene si afferma nel mercato come mezzo di scambio attraverso un processo naturale di selezione. Scrive ancora Mises: «La definizione di moneta è molto semplice. La moneta è il generale mezzo di scambio usato nel mercato. La moneta, mezzo di scambio, è qualcosa che gli individui scelgono per facilitare lo scambio di beni. La moneta è un fenomeno di mercato. Cosa significa? Significa che la moneta si sviluppa sul mercato e che il suo sviluppo e la sua funzione non ha nulla a che fare con il governo, lo Stato o la violenza esercitata dai governi». La valuta unica contraddice in pieno questo fenomeno storico: essa non solo è stata imposta dalle autorità governative, ma ciò è stato fatto al di fuori di un sistema valutario sostenuto da un bene reale quale l’oro. Il cartalismo puro inaugurato da Nixon nel 1971 ha permesso l’affermarsi di alchimie monetarie che infine hanno generato l’aborto valutario chiamato Euro.
Tali considerazioni ci portano al più generale problema dell’Unione Europea. Una grande speranza, forse, alla fine della Seconda guerra mondiale. Un’aberrazione nel nuovo millennio. A trionfare non sono stati gli ideali di libertà che forse l’avevano ispirata, ma gli ideologi della tecnocrazia che impongono la propria visione della vita senz’anima a un continente intero. L’Euro è il tentativo di creare la moneta perfetta. Le regolamentazioni antitrust cercano di creare in laboratorio il mercato perfetto. Tutto deve essere armonizzato. Il marxismo tenta di applicare con violenza gli ideali ugualitari della Rivoluzione francese. L’Ue è il tentativo coatto di applicare un libero mercato ideale. Violando la condizione principe della bellezza che è l’imperfezione. Qual è l’unione per eccellenza? Il matrimonio. Ed esso non si fonda sull’imposizione dell’eguaglianza, ma sulla inesausta dialettica tra differenze e imperfezioni che camminano insieme non verso regole comuni ma verso un destino condiviso.

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