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Jean Vigo, il Realismo poetico e anarchico dell’Amore

Il 5 ottobre 1934 muore per tubercolosi, a Parigi, a soli 29 anni, Jean Bonaventure de Vigo-Almereyda, noto alla storia semplicemente come Jean Vigo e considerato un “autore maledetto” per le numerose censure che le sue opere subiscono dalle autorità, accusate di essere anti-francesi a causa dei temi trattati e degli accostamenti a Louis Ferdinand Céline e Arthur Rimbaud. In ogni caso, Vigo è entrato nella storia del cinema indipendente, pur essendo rimasto incompreso dal grande pubblico della propria epoca e ignorato dalla grande industria della celluloide. Sarà rivalutato dopo la Seconda Guerra Mondiale e considerato uno dei grandi maestri, nonostante avesse scritto e diretto quattro sole opere in appena cinque anni.
Nasce a Parigi il 26 aprile 1905 da una famiglia di idee politiche marcatamente anarchiche. Il padre, Eugene Bonaventure de Vigo, noto anche con lo pseudonimo di Miguel Almereyda (come voluto anagramma di “Y a la merde”), direttore del giornale “Le Bonnet Rouge”, viene arrestato nel 1914 per attività antifrancese e rinchiuso nella prigione di Frésnes. Pochi giorni prima del processo viene trovato morto, strangolato con i lacci delle scarpe. Il referto dell’autopsia parla di suicidio, ma le vere circostanze della morte non saranno mai chiarite, anche se l’omicidio su commissione è ben più che una teoria. Il trauma segna profondamente il carattere già ribelle di Jean, di salute cagionevole, studente svogliato che passa da un liceo all’altro senza riuscire a socializzare con i coetanei, fino agli anni del collegio a Millau, superbamente rappresentati in nel film “Zéro de conduite”.

L’approccio al cinema

Nel 1925 incontra Elizabeth Lozinska, detta Lydu, si sposa, quindi, nel 1929, è costretto a trasferirsi a Nizza per motivi di salute. Qui ottiene dal padre di lei un prestito per produrre e girare un documentario sulla città, in collaborazione con l’amico Boris Kaufman, che cura la fotografia.
Il risultato, sulla scia dell’avanguardia surrealista, è “A proposito di Nizza” (“À propos de Nice”), un vero e proprio poema visivo muto, girato in 16mm della durata di 25 minuti, costellato di realismo, surrealismo, vette di autentico lirismo, su un montaggio dal ritmo serrato che esprime una feroce satira politica sulla borghesia provenzale, aspetto ribadito dallo stesso Vigo alla presentazione del film al celebre Vieux Colombier, teatro di Parigi che è punto di incontro delle maggiori vicende culturali del periodo: “E’ un film interpretato dall’intera città, dove si vuole processare un certo insulso mondo opulento, privo di spessore…messo sotto l’insegna del grottesco, della carne e della morte, ultimi bruschi sconvolgimenti di una società che si abbandona fino alla nausea di se stessa…”. Il film mostra sia la bella vita delle classi abbienti che si preparano alla baldoria del carnevale e, di contro, fa emergere le condizioni della popolazione che stenta nella totale povertà. Insomma, un tentativo si portare l’avanguardia sovietica e il Futurismo sullo schermo, e sviluppare un’arte separata dal realismo socialista per incontrare l’anarchismo poetico.
Con la prima opera, il cinema di Vigo esce da subito dagli schemi. Rimane quindi non facile catalogare la produzione successiva, completamente libera e visionaria, al tempo stesso permeata di ingenuità e dissacrazione, costantemente in una sorta di limbo fra sogno e realtà.
Il nome di Vigo comincia a circolare nell’ambiente del cinema e nel 1931 la casa cinematografica Gaumont-Franco Film-Aubert gli commissiona un documentario sul campione di Francia di nuoto Jean Taris. Sarà una produzione di circa 10 minuti contenente le prime riprese subacquee del cinema, dal titolo “Taris ou la natation”, (in Italia “Taris, il re dell’acqua”) con la fotografia curata da Boris Kaufman e la collaborazione alla regia di Ary Sadoul, nel quale Vigo non manca di imprimere il proprio caratteristico “marchio di fabbrica”: quello che doveva essere un semplice documentario didattico per illustrare lo stile e la tecnica natatoria, diventa un riuscito esperimento figurativo sull’espressività del corpo umano immerso in acqua. Soprattutto grazie all’esperienza professionale di Kaufman (che introduce notevoli innovazioni tecniche come lo “slow-motion” in immersione, la fotografia e il drammatico uso della luce subacquea) e nonostante il basso costo dovuto alla cronica mancanza di fondi, sarà la traccia base della successiva produzione.

“Zero in Condotta”, una rivoluzione culturale

Con l’opera fondamentale “Zero de Condite”, del 1933, Jean Vigo rappresenta in 47 minuti l’essenza della ribellione giovanile. Un inno all’anarchia contro l’ordine costituito e la prepotenza delle autorità scolastiche: quattro studenti (Bruel, Caussat, Coline e Tabard, dotato di particolari poteri sensitivi) decidono di far valere i propri diritti, stanchi delle angherie subite da un professore-tiranno e rovinano la festa della scuola con azioni e canzoni offensive, durante le quali viene urlata per la prima volta su uno schermo la parola “merda”. Con i ragazzi si schiera un professore progressista contro l’ottuso preside conservatore. La reazione della critica è immediata: il film viene censurato e bollato come dissacratore dei valori tradizionali. Bisognerà attendere il 1946 per riscoprire l’opera, considerata il manifesto fantastico del mondo giovanile, del bisogno di libertà soprattutto intellettuale contro la segregazione e l’ottusità delle regole considerate come dogma.
“Zero in condotta” verrà considerato la chiave che apre le porte del mondo visionario e poetico dei sensi, la visualizzazione dell’immaginario del cinema nella sua forma più lirica e tragica al tempo stesso. Naturalmente si comprende come il film sia la trasposizione delle vicende biografiche dello stesso Vigo e della sua infanzia tormentata, in una disperata e felice metafora sulla libertà creativa, riuscita grazie al montaggio curato dallo stesso Vigo, alla sempre sapiente tecnica fotografica di Boris Kaufman e alla musica di Maurice Jaubert.

“L’Atalante”, testamento di un genio

Nel 1934, sempre con la collaborazione di Boris Kaufman, Jean Vigo scrive la sceneggiatura della sua ultima e più sentita opera, insieme ad Albert Riéra e Jean Guinée. Nasce così “L’Atalante”, montato da Louis Chavance e prodotto ancora dalla Gaumont-Franco Film-Aubert. Il film, girato in 35 mm, della durata di 85 minuti, costituisce la sintesi del pensiero di Vigo e può essere considerato il testamento di un genio non compreso dal suo tempo. E’ la storia del marinaio Jean e della bella parigina Juliette che, appena sposati, decidono di vivere a bordo di una chiatta, “L’Atalante” appunto, insieme ad un vecchio marinaio, Pére Jules, e ad un giovane mozzo. Dalla iniziale felicità, presto le condizioni di vita spingono la coppia alle prime incomprensioni e litigi. Dopo aver percorso molti dei canali interni del Paese, la chiatta approda sui moli della Senna a Parigi e Juliette decide di uscire sola e andare a vivere la notte cittadina. Non è un addio, la breve separazione servirà a rafforzare il legame fra due protagonisti. Da notare il cammeo di Jacques Prévert.
Rimasto incompiuto per la morte di Vigo e uscito postumo, “L’Atalante” rimane un capolavoro sempre attuale per la sua capacità di commuovere, di stupire con note di poesia ricca di intuizioni, e può essere considerato un manifesto dell’Amore e della Libertà che vanta numerose imitazioni. Oggi è possibile visionare anche le scene tagliate dal regista, per un totale di 28 minuti circa ed esiste inoltre un affascinante produzione, “Il Viaggio de l’Atalante”, di circa 39 minuti, che raccoglie diverse interpretazioni della pellicola, ricavate dalle stesse scene tagliate da Jean Vigo.
Ben accolto dalla critica, a differenza delle precedenti opere, viene considerato oggi il primo vero film neorealista della storia del cinema, con accenti di surrealismo in particolare nelle scene girate sott´acqua, quando il marinaio Jean si tuffa nel canale alla ricerca dell’immagine di Juliette. Molti registi di grande successo non nascondono di essere stati attratti e ispirati più d’ogni altra cosa da questo film, fra cui Bernardo Bertoluccci, Jean Renoir, François Truffaut, John landis e Luis Bunuel.

Il Surrealismo di Vigo

Il celebre Jean Rouch ebbe a dire “Solo i maestri, i folli e i bambini osano premere i bottoni proibiti…”. Parole che sintetizzano la visione sociale e artistica di Vigo, in un’atmosfera che stava assistendo al connubio di diverse avanguardie storiche, soprattutto Surrealismo e Cinema.
Molti critici cinematografici riconoscono a Jean Vigo la sorprendente capacità di incarnare il rapporto fra le avanguardie storiche, un rapporto problematico, di certo, ma senza dubbio produttivo e culturalmente autonomo proprio nel cinema, che con Vigo sconvolge le strutture del linguaggio e del sistema preordinato dei significati accettati come dogmi, e si presentano alla realtà. Tramite l´avanguardia è stato dunque possibile un assorbimento delle arti tradizionali nel cinema, parte essenziale dello sperimentalismo delle origini, ed insieme, del cinema nel mondo delle arti, pur con le difficoltà e le contraddizioni di una comunicazione contemporaneamente popolare ed elitaria.
Il cinema di Vigo osa, e lo fa in modo spregiudicato cercando collegamenti con le avanguardie letterarie e artistiche in genere, per rivoltarle completamente tramite la negazione dei concetti estetici, ricostruendo la realtà e il senso delle cose. Questo è possibile perché il cinema si pone come sistema linguistico complesso, che consente di riprodurre le stesse modalità di “costituzione”, “fondazione”, del reale, proprie della percezione ordinaria E’ quindi possibile individuare il punto più alto di questo connubio cinema-arte, soprattutto nel concepire il surrealismo come uso dell´immagine.
La riflessione sull´immagine, in effetti, è il risultato dell´emergere di una concezione del teatro prevalentemente visiva, propria dell´intuizione, che è prima futurista, poi dadaista e quindi surrealista, a proposito della prevalenza della scena, e quindi degli oggetti, rispetto al concetto di “uomo al centro della scena”.
Jean Vigo definisce il cinema come la necessità di rispondere ad una esigenza sociale, un cinema sociale che deve mettersi continuamente in gioco, non per idealismo, bensì perché consapevole di sé stesso, del suo linguaggio, delle modalità espressive.
L´occhio della cinepresa non è un semplice prolungamento dell´occhio umano, ma lo strumento per rappresentare la realtà mentre la racconta, facendo emergere il vero senso delle cose riprese, e rappresentare la realtà anche oltre le apparenze. Come dire che nella percezione comune ciò che ha prevalenza è l´apparenza immediata, mentre nell´immagine (ovvero nell´apparenza consapevole) prevale il “significato reale”. Tale concetto però non deve ingannare, in quanto in esso è anche ben presente un giudizio etico che si inserisce in ogni fotogramma, e che offre lo spunto per scoprire i significati del quotidiano.

Jean Vigo oggi

Dal 1951 il nome di Jean Vigo è legato ad un prestigioso premio cinematografico che ogni anni viene assegnato ad un autore o regista francese del quale è riconosciuta l’indipendenza culturale e spirituale e originalità di stile, nonché la portata sociale e umana dell’opera. Dal 1960 il premio è diviso in due sezioni, lungometraggi e cortometraggi. Fra i prestigiosi nomi che lo hanno ricevuto, Alain Resnais (1954) con “Les statues meurent aussi”; Claude Chabrol (1959) con “Le beau Segre”; Yves Robert (1962) con “La guerre des boutons” ; Laurent Perrin (1987) con “Buisson ardent”; Eric Barbier (1991) con “Le Brasier”; Olivier Ducastel e Jacques Martin (2009) con “L’Arbre et la Foret”.
Nel 1964 il regista Jacques Rozier dirige “Film-makers of our times”, un’approfondita indagine sull’opera di Jean Vigo nella quale vengono intervistate alcune persone che con lui hanno collaborato o sono venuti in contatto per diversi motivi, fra cui uno dei protagonisti di “Zero in condotta” (il giovane Caussat è infatti un personaggio reale), il produttore Nounez e quasi tutto il cast di “L’Atalante”. Ne esce un ritratto di Vigo pieno di vitalità, nonostante i continui problemi di salute, con un profondo senso dell’umorismo e dell’ironia, vivace e irriverente, caratterizzato da una grande tenerezza per il prossimo.

Boris Kaufman, inseparabile alter ego

Poche persone hanno vissuto a contatto di Jean Vigo come Boris Kaufman, curatore della fotografia delle quattro opere del regista francese.
Kaufman lascia la Russia nel 1917 in preda alla Rivoluzione d’Ottobre e, dopo un viaggio drammatico attraverso Germania e Belgio, arriva a Parigi nel 1927. Durante gli anni che trascorre in giro per mezza Europa, mantiene una fitta corrispondenza con i fratelli, che in tal modo gli danno lezioni di cinema, poi conosce Jean Lods e Léon Moussinac. Sempre nel ’27 è fra i realizzatori del cortometraggio “Les Halles Centrales” ma la prima vera esperienza cinematografica è dell’anno seguente, con la compagnia dell’amico Jean Lods, nelle riprese di “Le Mile – La vie d’un fleuve” e “La Marche des Machines d’Eugene Deslaw”. Alla fine del 1928 incontra Jean Vigo e da subito nasce una sincera e autentica amicizia nonché affinità artistica che si traduce in un´assidua collaborazione.
Kaufman collabora inoltre con Marc Allegret, Henry Chomette, Christian Jacque, Abel Gance, René Le Haniff, Dimitri Kirsanov e altri. Allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale combatte nell’esercito francese e dopo l’invasione tedesca del 1940 si trasferisce negli Stati Uniti, ad Hollywood, ma senza successo. La sua esperienza lo porta a lavorare in Canada, all’Office National Film Board di John Grierson, nella produzione di documentari, quindi nel War Office of Public Information, con cui collabora per il documentario “Arturo Toscanini, L’Hymne des Nations” del 1944. Nuovamente in USA lavora al Servizio Pubbliche Informazioni e collabora al documentario “Un voyage au pays des las medicine” del 1946.
Negli anni Cinquanta e Sessanta lavora con Sidney Lumet ed Elia Kazan (cura la fotografia del celeberrimo “Fronte del Porto” che gli vale il Premio Oscar 1955 e la “nomination” nel 1957 per “Baby Doll”) e, poi con Otto Preminger e Jules Dassin. Nel ’65 è direttore della fotografia nel cortometraggio “Film” di Samuel Beckett, quindi nel 1970 si ritira a vita privata a New York, dove muore poco dopo.

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