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Eutanasia: una pratica ‘giusta’ o ‘sbagliata’?

La vita è gioia, gioia esclusivamente finalizzata a se stessa. Vivere è gioia ed è nell’atto stesso di vivere che si esprime il concetto. La vita è gioia, ma porta con sé anche il dolore. Come un serbatoio profumato e colorato con dentro un liquido oscuro, dal colore inquietante. Non è possibile sapere cosa in serbo abbia per noi questo immenso e imperscrutabile contenitore di vita, è lecito sapere solo che ci viene affidato nel momento in cui veniamo alla luce. Il nostro primo incontro con la vita è suggellato dal pianto e forse questo la dice lunga. Sta di fatto che tra pianto e sorriso, luce e buio, gioia e dolore, “la vita è vita” ed è per questo che si discute molto nel mondo sull’eutanasia.
Il termine ‘eutanasia’ (dal greco euthanasía: eu = bene, thánatos = morte) è riportato sul dizionario con il significato “morte serena, indolore”. Una buona morte, una dolce morte. Consiste nell’atto di procurare intenzionalmente e nel suo interesse la morte di un individuo la cui qualità della vita sia permanentemente compromessa da una malattia, menomazione o condizione psichica. Generalmente, viene applicata nei casi in cui i pazienti – degli Stati in cui l’eutanasia è concessa – sono considerati dall’ambiente medico malati terminali. Ma per quanto possa sembrare – o essere, dipende dai punti di vista – una ‘buona’ cosa, in quanto evita al paziente di morire in maniera dolorosa e quindi di soffrire ulteriormente, c’è la questione morale. C’è chi dice si tratti solo di “inutile moralismo”, chi dice si tratti di “religione” o che in fondo “non c’è più religione”. Eppure, i Paesi che rendono legale questa pratica sono sempre di più.
In un mondo in cui ognuno è libero di fare ciò che vuole – o meglio in quelle parti del mondo dove è consentito, o ancora meglio crede che lo sia – è paradossale e snervante che qualcuno possa metterci i bastoni tra le ruote, o attivare delle macchine per tenerci in vita se non lo vogliamo. Il corpo è mio e ne faccio ciò che voglio, la vita è mia e ne faccio ciò che voglio, sono frasi che sentiamo dire ogni giorno da chi ci circonda, o uscire dalle nostre labbra. E ci crediamo fino in fondo, per tutta la vita, anche quando la nostra volontà debba essere espressa a favore o meno della vita stessa. Oltre l’identità, la religione, il pensiero, la morale, la legge o la filosofia, è palesemente giusto che ognuno faccia di se stesso ciò che vuole, senza fare ovviamente del male agli altri. L’eutanasia è una pratica che viene – deve essere – applicata in casi ritenuti da voci competenti in ambito medico ‘particolari’, ‘particolarmente gravi’, ‘senza via di ritorno’, ‘ultima spiaggia’. Sebbene indolore, terribile. Oltre santi, miracoli e imprevedibilità della vita, tenendo conto del fatto che anche i medici sono umani – e che dunque possono sbagliare diagnosi, cura, o previsione di morte o di vita –, scegliere la pratica dell’eutanasia per la propria morte equivale a risparmiare se stessi da ulteriore dolore. Dunque, in un certo senso rappresenta una ‘via di fuga’ dal dolore, anche se d’altro canto, soprattutto se la sofferenza ha già devastato con il suo corso, potrebbe rappresentare anche l’unico respiro di sollievo dopo tanto male sofferto. Sebbene ultimo respiro. Ma una domanda è lecita: se la pratica dell’eutanasia rappresenta una via di fuga dal dolore, di un dolore che si crede debba durare per poco perché la diagnosi è malattia terminale, perché si dovrebbe puntare il dito contro coloro che, invece, sanno che quel dolore che hanno – per problemi, difficoltà, caso di vita, malattie incurabili ma non terminali – potrebbero averlo per sempre, dunque possono avvilirsi, annebbiarsi, sentirsi spacciati a tal punto da prendere in considerazione la via del suicidio?

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