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Medio Oriente – Gli USA verso un altro Vietnam

Continuano i massacri indiscriminati per mano dei miliziani dello Stato Islamico. L'ultimo in ordine di tempo si è verificato durante la battaglia per la conquista di Palmyra, dove oggi sventilano le bandiere nere, con la morte di oltre 400 vicili, quasi tutti donne e bambini.
Lo scorso settembre, Washington aveva annunciato la creazione di una coalizione internazionale per combattere lo Stato Islamico. Si sono effettuati bombardamenti aerei, con l'utlizzo dei droni, espressione della più avvenieristica tecnologia bellica, poi è entrato in campo l'esercito iracheno (armato dagli USA), ma i miliziani non sono stati fermati, anzi, avanzano continuamente e attualmente controllano metà della Siria e le provincne di Deir al Zour, Ramadi, Haditha, Anah, Tarbil e Al-Qain. E oggi sono addirittura in vista della capitale Baghdad. In circa 9 mesi di guerra, il Califfato Islamico ha guadagnato oltre il 30% di territorio e per la coalizione a guida americana si sta delineando una bruciante sconfitta, un secondo Vietnam. Quel che è peggio è che gli jihadisti hanno oggi in mano diverse zone dove si trovano importanti giacimenti petroliferi e crocevia commerciali. Non pochi dicono che la guerra, a questo punto, è già stata persa.
Da Washington si cerca di salvare la faccia, ma varie eclatanti bugie sono già state smarscherate, a cominciare dall'uccisione di Abu Sayyaf che sarebbe stato un colpo decisivo nei confronti dell'Isis e che invece sembra non avere alterato minimamente i programi degli estremisti. Abu Sayyaf, morto lo scorso 16 maggio, evidentemente è già stato sosituito. Brucia parecchio invece, per gli USA, la perdita di Ramadi, definita falsamente “un intoppo nella strategia contro l'Isis”. Peccato che lo stesso governatore della provincia di Anbar abbia dichiarato: “Se perdiamo Ramadi, perdiamo tutto l'Iraq”.
Ora Washington sta già evidentemente pensando a una via onorevole per tirarsi fuori dal pantano iracheno, e tanto per cominciare ha ignorato l'appello del primo ministro Haider al Habadi che ha chiesto ripetutamente un incontro al vertice con i capi dell'amministrazione americana e invece ha potuto solo avere un colloquio con l'ambasciatore statunitense Stuart Jones. E intanto il ministro della Difesa di Teheran, Hussein Dehgan, ha incontrato il proprio omologo iracheno per elaborare una strategia comune, segno evidente che l'Iran sta prendendo sempre più piede e si propone come il più propabile scudo di protezione contro l'Isis.
Gli unici a contendere significative parti di territorio sono i guerrieri curdi, che sono stati capaci di riconquistare la loro Kobane, olte alla riconquista di Tikrit da parte delle milizie sciite Hashad Al Shaabai. Guerriglieri locali, che agiscono indipendentemente dalla strategia americana, ormai considerata perdente, soprattutto per quanto riguarda le missioni aeree, efficaci solo se portate contro grandi concentramenti di miliziani, e inutili se qesti ultimi agiscono in piccoli gruppi, come spesso accade, visto che non sono degli sprovveduti. Quella dell'Isis è la tattica definita del “colpisci e sparisci”, come facevano i commando britannici durante la seconda guerra mondiale.
Al momento, quindi, l'amministrazione americana si trova di fronte a tre sole scelte: continuare con l'impegno iniziato lo scorso settembre (che come si è visto non è la tatica vincente); cominciare il ritiro graduale ma fino all'ultimo uomo e rinunciare a sconggere l'Isis, affrontando di conseguenza una profonda crisi di credibilità a livello mondiale, e rinunciando anche alla propria influenza politica ed economica nell'area mediorientale a vantaggio dell'Iran; affrontare una escalation della guerra tenendo presente che così facendo si dovranno accettare tutta una serie di inevitabili imprevisti, e la conseguenza che tale scelta potrebbe anche comportare il rischio di favorire la politica dei propri avversari, soprattutto in Siria, dove a uscirne vincente sarebbe prima di tutto il presidente Bashar Assad. Gli Stati Uniti possono permettersi tutto questo?
Da tenere d'occhio è anche e soprattutto la situazione siriana. Il Paese, stando alle ultime notizie, è ormai per circa metà sotto controlo dei miliziani dell'Isis, mentre Assad deve affrontare anche gli oppositori e i ribelli che ormai circondano Damasco e controllano il corridoio con il Libano lungo i masicci montuosi di Qalamoun. Il Mossad israeliano, a quanto pare, è in stato di massima allerta e non eslude che Assad possa essere costretto a fuggire dalla sua capitale. A quel punto la situazione precipiterebbe inetivabilmente.

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