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Venezia: i gay impazzano, ma non convincono

Tom à la ferme (Tom alla fattoria) del canadese francofono Xavier Dolan, un regista nato come attore di serie televisive, è tratto dal romanzo omonimo di Michel Marc Bouchard. E’ un melodramma omosessuale che prende le mosse dall’arrivo di un giovane pubblicitario di Montreal in un fattoria di provincia per assistere al funerale di un suo compagno di vita. Scopre subito che la madre del defunto non sapeva nulla delle abitudini sessuali dal figlio, mentre suo fratello, che gestisce l’azienda dalla morte del padre, lo aggredisce e minaccia per impedirgli di rivelare la vera natura che della relazione che lo legava al defunto. Ben presto nasce un legame affettivo e sessuale anche fra questo agricoltore corpulento e macho e il vedovo. Una relazione intessuta di gesti bruschi, violenza e improvvisi scoppi di passione. Quando arriva una collega del morto, che il giovane cittadino ha fatto venire per dare l’illusione all’anziana genitrice dell’eterosessualità del figlio, la tragedia esplode con violenza. L’omosessuale gentile riuscirà a ritrovare la via di casa solo a prezzo di rischi e umiliazioni. Melodramma omosessuale, si è detto, in quanto la storia procede per snodi gridati così come avviene in questo genere di cinema e di letteratura. Nel caso specifico le scelte sessuali sono solo uno scenario accattivante in cui inserire una storia d’amore e violenza che prescinde del tutto dalle preferenze erotiche delle persone che coinvolge. Come dire, un film poco originale nella sostanza, convenzionale nella forma.

L’americano Terry Gilliam è stato l’unico non inglese a partecipare all’esperienza del gruppo Monty Python al cui successo ha contribuito con un sovraccarico di visionarietà che ritroviamo anche in The Zero Theorem (Il teorema zero). La sintesi della trama parla di un eccentrico genio del computer, afflitto da angoscia esistenziale, che lavora a un progetto che dovrebbe dare un risposta definitiva ai fini dell’esistenza umana. Sintesi esatta, ma che deve essere integrata con la citazione di una scenografia allucinata – buona parte del film simula l’interno di una chiesa adattata a casa/laboratorio con le telecamere di sorveglianza poste sopra la testa del crocefisso – tesa a ricreare un mondo in cui i computer e le loro tecniche sono arrivati a sostituire qualsiasi pulsione umana, anche sessuale. In questo universo totalmente disumanizzato, controllato da un manager simile a Dio, si muove un piccolo programmatore che non ha smesso di porsi domande sulle vere ragioni dell’esistenza. Il sistema userà ogni mezzo – dalla violenza alla lusinga erotica – pur di ricondurlo sotto il controllo generale, ma fallirà quando il nostro scoprirà la dolcezza e la forza dell’amore verso una donna. La metafora è decisamente elementare e le riflessioni sulla computerizzazione della vita non mancano di scivolate nella banalità, ma ciò che conta e affascina è il contorno, allucinato e fantastico, in cui la vicenda è immessa. In definitiva un film visionario e ricco di suggestioni che accenna a molte domande, ma offre pochissime risposte.

Fuori concorso è stato presentato Locke dell’inglese Steven Knight, un film davvero originale, costruito quasi per intero su sequenze girate all’interno di un’automobile che percorre un’autostrada e, come sfondo sonore, sulle telefonate che il guidatore scambia con colleghi di lavoro e famigliari. Ivan Locke è un capocantiere impegnato nella gettata delle fondamenta di un altissimo grattacielo destinato a diventare una delle meraviglie architettoniche d’Europa. Alla vigilia delle operazioni che porteranno un mare di calcestruzzo a formare la base dell’edificio, riceve la notizia che una sua ex-amante, con la quale ha avuto una sola notte d’amore, sta per partorire. Abbandona ogni cosa per assistere al parto anche se questa decisione gli costerà il lavoro e la famiglia. Nel farlo rivendica il diritto di sovraintendere, via telefono, al complesso lavoro di gettata, che affida a un suo vice le cui azioni guida via telefono. E’ un film molto originale, il cui interprete principale, Tom Hardy, regge sulle proprie spalle buona parte dell’esito dell’opera. In meno di un’ora e mezzo di forte tensione assistiamo a una svolta nella vita di questo personaggio, scopriamo i motivi per cui tutto questo accade e partecipiamo, emozionati, alla fine di un’esistenza e allo sbocciare di un’altra. Lo si potrebbe definire un film da camera o una forma di teatro – monologo filmato, ma ciò che veramente conta è l’abilità con cui questo regista – autore anche di testi teatrali e romanzi – riesce a creare quasi dal nulla un clima teso e ricco di suspense.

La Settimana Internazionale della Critica (SIC) ha presentato White Shadow (Ombra bianca), una coproduzione fra Italia, Germania e Tanzania firmata e sceneggiata dall’esordiente Noaz Deshe. Il film parte da un dato di cronaca: nel paese africano c’è stata, a partire dal 2008, una vera e propria caccia all’albino innescata da medici stregoni che offrono ingenti somme per comprarsi parti del corpo di questi neri – bianchi e se ne servono per creare sedicenti pozioni magiche. Si stima che in due anni, dal 2008 al 2010, questa caccia abbia causato più di duecento omicidi. Il film racconta la storia di Alias, un ragazzino albino che, dopo aver assistito all’assassinio del padre, è mandato dalla madre a rifugiarsi in citta, presso uno zio. Vendendo piccole cose e faticando a sopravvivere, proverà sulla propria pelle le difficolta dell’essere diverso. Questo almeno nelle intenzioni dichiarate del regista, nel film, al contrario predominano i toni sociologici, quasi documentaristici, legati al quadro di una società arretrata e violenta che ricorda molto lo sguardo di buona parte del cinema del terzo mondo. Va in questo senso anche il finale, facilmente liberatorio, con un intero villaggio che, dopo l’uccisone e lo smembramento di un ragazzino albino, si fa giustizia sommaria linciando la banda di trafficanti responsabili del delitto. Un dato positivo è nell’interpretazione di Hamis Bazili che rende con efficacia i triboli di un giovane costretto ad attraversare l’inferno di una grande città africana, dalla violenza alla prostituzione, dalla ferocia animista al racket del commercio, per quanto miserabile possa essere. In definitiva un film molto ben costruito, ma legato a modelli di cinema già conosciuti.

(umberto@uerre.it)

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