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Sequestro Moro: secondo atto

Dopo il sequestro avvenuto il 16 marzo 1978, prosegue il periodo più buio della Prima Repubblica.

Il 18 marzo le Brigate Rosse diffondono il primo comunicato con le foto di Aldo Moro. È stato ufficialmente rapito. Il sequestro è ufficialmente comunicato. Il 19 marzo, Papa Paolo VI decide di lanciare il primo appello per la sua liberazione.

Il 21 marzo arriva anche la risposta del governo italiano: vengono varate le leggi speciali antiterrorismo. Le pene diventano sempre più severe: 30 anni per il sequestro di persona, l’ergastolo in caso di morte del rapito.

Il 20 marzo a Torino, durante il processo, Renato Curcio dichiara: “È nelle nostre mani, ce lo abbiamo noi ”.

Il 23 marzo, il ministro dell’Interno Francesco Cossiga diventa il coordinatore delle forze di Polizia. Nel frattempo, il Pci comunica la sua posizione ufficiale: nessuna trattativa con le Brigate Rosse.

 

Le lettere e la trattativa

Aldo Moro è un imputato sottoposto a processo. Lui solo deve rispondere dei crimini commessi da un sistema intero. Non c’è nessuno lì con lui. Può solo sfruttare le sue parole. Così Aldo Moro inizia a scrivere le sue famose lettere. Le prime tre sono indirizzate alla moglie Eleonora, al collaboratore Nicola Rana e a Francesco Cossiga.

“Io mi trovo sotto a un dominio pieno e incontrollato, sottoposto ad un processo popolare, che può essere opportunamente graduato, con il rischio di essere indotto a parlare in maniera sgradevole e pericolosa”.

Sono queste le parole dello stesso Aldo Moro, nella lettera a Cossiga.

“Il sacrificio degli innocenti in nome di un astratto principio di legalità, mentre un indiscutibile stato di necessità dovrebbe indurre a salvarli, è inammissibile”.

E ancora: “Un atteggiamento di ostilità sarebbe una astrattezza ed un errore”. Aldo Moro sta chiedendo al suo partito di non irrigidirsi. Sta chiedendo di cercare uno scambio. Sta proponendo una via alternativa.

 

La segretezza violata e la risposta della Dc

La lettera in teoria dovrebbe rimanere segreta. Addirittura Moretti lo garantisce a Moro. Invece è proprio lui ad inviarla ai giornali. Faranda però non è d’accordo. In questo modo anche il più piccolo margine di trattativa verrebbe stroncato sul nascere.

La brigatista ha ragione. Il 30 marzo, dopo altri due comunicati dei terroristi e le lettere di Moro alla moglie Eleonora, anche la Dc scioglie la prognosi: nessuna trattativa con le Brigate Rosse. Per la prima volta, i due grandi partiti sembrano essere d’accordo su qualcosa.

Per i partiti quella è l’unica posizione da assumere. Le Brigate Rosse hanno già mietuto troppe vittime, soprattutto tra le forze dell’ordine. Non si può essere teneri con individui di questo tipo. Bisogna usare la linea dura. L’unica linea che possono capire.

 

La cella di Aldo Moro

Mentre i vertici del mondo politico si interrogano sulle trattative, c’è una grande domanda che affligge i vari strati della società italiana. Dove si trova Aldo Moro?

Roma viene passata al setaccio. I posti di blocco sbucano come funghi. La polizia sta per scoprire il covo di via Gradoli 96, il principale quartier generale delle Brigate Rosse nella Capitale. Lì vivono Mario Moretti e Barbara Balzerani. Inspiegabilmente, la polizia si ferma davanti al silenzio dell’interno 11. Si arriva ad ipotizzare che Moro sia stato portato addirittura in Umbria.

Mentre a Roma regna il caos più totale, il prigioniero si trova in un appartamento in Via Montalcini. Un appartamento perfettamente normale, che da fuori non desta alcun sospetto. All’interno Mario Moretti, Prospero Gallinari e Germano Maccari hanno costruito con dei pannelli di legno e del cemento un vano lungo due metri e largo novanta centimetri. Completamente isolato acusticamente. Nessun contatto con il mondo esterno.

Quel vano è la cella di Aldo Moro.

 

Cosa è rimasto di Aldo Moro

Una brandina e un water chimico. Nient’altro. Non c’è nemmeno spazio per un tavolo. Sul muro c’è una bandiera rossa, con la scritta Brigate Rosse in giallo. Quella bandiera è fortemente simbolica. Spoglia Moro della sua identità politica, relegandolo al ruolo di prigioniero. Non esiste più Aldo Moro, membro della Dc. Il sostenitore della solidarietà nazionale non c’è più. Rimane solo un prigioniero del popolo, pronto ad essere processato per i crimini che ha commesso.

Intorno a lui ci sono diversi brigatisti. C’è Adriana Faranda, che dopo aver ucciso gli uomini della scorta, è diventata la postina. Si occupa di far avere al mondo esterno le lettere di Moro e i comunicati delle Brigate Rosse. C’è Mario Moretti, che prova il registratore. Nulla deve andare perso. Ogni attimo del processo deve essere documentato con una cura ai limiti dell’ossessione. Ossessione che si ritrova anche nella foto dell’ostaggio diffusa dai terroristi. I bordi della polaroid sono stati tagliati con cura. In questo modo, ogni traccia del numero identificativo del rullino andrà perduta. Così non sarà possibile risalire a chi lo ha acquistato.

Rimane dunque una polaroid in bianco e nero. Al centro Aldo Moro in condizione mai viste prime, perlomeno in pubblico. La camicia aperta, la canottiera che si vede chiaramente. Lo sguardo è contrito. Sembra che stia cercando di aggrappare quel briciolo di dignità che le Brigate Rosse ancora non gli hanno strappato. Dietro di lui troneggia la bandiera delle Brigate Rosse. Sembra quasi schiacciarlo e ripetere le parole di Curcio al processo. “È nelle nostre mani, ce lo abbiamo noi ”.

Sì, ormai Aldo Moro è nelle loro mani. I due grandi partiti scelgono la linea dura. Un no secco alla mediazione. L’Italia rimane a guardare quel testa a testa. Nessuno sa che l’incubo è appena iniziato e che, la sua fine, è ben lontana.

 

A cura di B. P.

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