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Sandulli: “La ‘ndrangheta c’è, ma c’è chi non la vede”

Il colonnello Sandro Sandulli ha combattuto per 40 anni la ‘ndrangheta in Liguria nelle file dei carabinieri. Dopo il suo pensionamento nel 2018 come si è evoluto il fenomeno?

Sandro Sandulli è stato colonnello dell’Arma dei carabinieri e per 20 anni ha lavorato in modo attivo contro la criminalità organizzata. Il 6 marzo, dopo 40 anni di onorata carriera, è andato in pensione. Tuttavia, il suo impegno e le operazioni che ha portato a termine hanno permesso di far luce su una questione chiave: la presenza della malavita al nord.

Il ruolo di Sandulli

Sandro Sandulli ha da sempre ricoperto degli incarichi importanti all’interno dell’arma. All’inizio ha lavorato con i carabinieri del Ros, Raggruppamento operativo speciale, di Genova e Milano. Già in quella fase della sua vita professionale, Sandulli si è impegnato per portare alla luce la questione delle infiltrazioni malavitose al nord. Siamo abituati a pensare che in Italia si tratti di un fenomeno prevalentemente diffuso al sud, dove lo stato non riesce ad essere presente e lascia spazio ad uno stato nello stato. In realtà, non è così. È stato dimostrato da molte inchieste, svolte su più livelli, che il nord Italia non è immune alle infiltrazioni mafiose. Anche se con modalità differenti, la malavita si inserisce anche nelle realtà imprenditoriali del nord, dando vita a riciclaggio di denaro, spaccio di droga e altri giri di affari poco chiari. Sandulli da sempre ha lavorato perché questa realtà non solo fosse contrastata, ma anche resa nota ai cittadini.

L’incarico alla Dia

Dopo aver lavorato al Ros, nel gennaio 2013 Sandulli entra nella Dia, direzione investigativa antimafia. Si tratta di un passo molto importante nella sua carriera. Il segno che tutto il suo impegno degli anni passati è stato ripagato. Dal 15 gennaio, il posto di Luigi Marra sarà suo. Adesso le sue responsabilità e il suo impegno aumenteranno. Negli anni precedenti, Sandulli si era dedicato a sradicare la malavita presente sul territorio. Aveva infatti provveduto al sequestro delle pizzerie della catena Regina Margherita, a causa di una sospetta infiltrazione della camorra. Non solo, aveva firmato il sequestro del patrimonio di Benito Canfarotta, prestanome e titolare di un vasto impero immobiliare. A Genova il suo impero contava centinaia di appartamenti. Valore totale: 5 milioni di euro.

L’allarme nel 2017: la ‘ndrangheta c’è, ma c’è chi non la vede

Dopo gli anni al Ros e il suo incarico alla Dia, Sandulli lancia un appello nel 2017. “Oramai la presenza strutturata in Liguria della ‘ndrangheta non è più una chiacchiera da bar ma un’evidenza nei confronti della quale, anche tra addetti ai lavori, c’è ancora scarsa sensibilità”. Sandulli lo racconta come se fosse qualcosa di banale, ormai noto ai più. Ma forse non è ancora così. Con un tono apparentemente tranquillo, sta parlando di un fenomeno decisamente inquietante, che dovrebbe far riflettere. Il colonnello non sceglie un giorno a caso. Fa questa dichiarazione quando, su richiesta del Centro Dia del Tribunale di La Spezia, ha applicato misure di prevenzione e confisca dei beni nei confronti di due imprenditori. Si tratta di Roberto Piras e Riccardo Trusendi, entrambi indagati per essere membri della ‘ndrangheta. I due adesso sono sorvegliati speciali con obbligo di soggiorno per due anni. I loro beni, per un valore totale di 20 milioni, tra quote societarie, auto e case in Francia e in Svizzera, sono state sequestrate. I due imprenditori erano già stati arrestati nel 2015, nell’ambito dell’operazione Grecale ligure. All’epoca si erano macchiati, in concorso tra di loro, di trasferimento fraudolento di valori, riciclaggio, reimpiego di denaro di provenienza delittuosa e falso.

L’aspetto più inquietante

L’aspetto più sconvolgente, che Sandulli stesso ha sottolineato, è il fatto che i due imprenditori non siano calabresi. Ciò lascia intendere che ormai, l’appartenenza alle cosiddette ‘ndrine non sia più su base territoriale. Le organizzazioni criminali hanno ormai superato i vincoli territoriali e familiari. “È una ‘ndrangheta che non si mostra, però, proprio quando il fenomeno è silenzioso è anche più pericoloso. Episodi come quello di Spezia dimostrano che imprenditori spregiudicati hanno capito come migliorare la propria posizione danneggiando però in questo modo l’imprenditoria sana,” spiega Sandulli. La ‘ndrangheta è molto ben radicata e ci sono ‘ndrine in tutto il nord. Ce n’è una Ventimiglia, la cui esistenza è stata provata da una sentenza di secondo grado. Una in provincia di Savona, dove è stato arrestato Carmelo Gullace, affiliato della famiglia Fotia. Una anche a Lavagna, dove è stato scoperto che la ‘ndrangheta era arrivata addirittura alla politica con sindaco e deputato collusi. L’elenco è ancora lungo. Nonostante ciò, l’opinione pubblica non è per niente mossa da questa situazione. Probabilmente, non si rende neanche conto di ciò che sta succedendo e che la tocca molto da vicino. “Rilevo scarsa sensibilità anche tra addetti ai lavori,” spiega Sandulli. Un esempio lampante e come vengono giudicati i casi di affiliazione mafiosa in Liguria. I giudici adottano un metro diverso rispetto ai loro colleghi milanesi o torinesi. Molto spesso, quando l’imputato è accusato di affiliazione mafiosa, senza però i reati di fine, viene assolto. Cosa che, invece, non avviene di solito in Piemonte e in Lombardia.

L’aumento dei casi

Già nel 2018, quando Sandulli non era in pensione, la situazione faceva pensare. Nel primo semestre del 2018 sono stati registrati ben 61 casi di estorsione, 50 di riciclaggio, 22 di danneggiamenti seguiti da incendi, 14 i trasferimenti fraudolenti di valori e 4 quelli di usura. Sono numeri che la dicono lunga su come l’infiltrazione mafiosa venga considerata e gestita al nord. Sandulli, in modo lungimirante, l’anno scorso aveva dichiarato che “Occorre una normativa. È impellente che ci siano articoli di legge che permettano a tutti di frapporre ai fenomeni criminali una linea di contrasto uguale.” Non solo, in un’intervista rilasciata a Marco Grasso, Sandulli aveva sottolineato che: “Ciò che manca prima di tutto è un quadro comune di strumenti investigativi e giudiziari. Anche pochi, ma uguali per tutti. I mafiosi su cui indaghiamo hanno filiali in Sudamerica, strutture in Canada, conti a Londra, nella stessa settimana fanno affari in Olanda, Macedonia o Albania, dispongono di liquidità e conti off-shore. Le forze antimafia, invece, sono costretta a muoversi, inevitabilmente, entro i propri limiti legislativi nazionali, che spesso non bastano”. Un appello che, purtroppo, è rimasto parole al vento.

La consapevolezza del problema

Nel frattempo, cresce la consapevolezza del problema anche all’interno della polizia. Roberto Traverso del Siap, Sindacato Italiano Appartenenti alla Polizia di Stato, è intervenuto sul tema, in occasione del vertice della Prefettura lo scorso 6 agosto. “La chiusura di altre tre aziende per mafia dimostra che le infiltrazioni dilagano, chiudere è fondamentale ma non basta.” Alla domanda sul perché la Regione Liguria non abbia mai istituito una commissione ad hoc, Traverso risponde: “Si tratta di provvedimenti importanti che giustamente devono essere reiterati perché non si tratta di segnali forti alle organizzazioni criminali, ma non basta. Per combattere questo fenomeno bisogna almeno raddoppiare le forze in campo impegnate nell’attività investigativa. Altrimenti, tali provvedimenti non saranno sufficienti per arginare un fenomeno che, con estrema facilità, riesce a diversificare la propria presenza, in particolare negli ambienti commerciali. Si tratta di un fenomeno sotto gli occhi di tutti e occorre trovare la forza e la volontà politica per affrontarlo, anche da parte della regione Liguria e del Comune di Genova.”

 

A cura di Beatrice Petrella

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