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Ragazzi prigionieri nella propria stanza, mille casi a Milano

 

Una generazione perduta, prigioniera tra le quattro mura della propria cameretta. Hanno scelto di ritirarsi dalla vita sociale, tagliando le relazioni con il mondo esterno e mantenendo aperti solo contatti mediati da internet.

Sono gli hikikomori”, termine giapponese che significa letteralmente “stare in disparte”. Fenomeno che secondo le stime dell’associazione Hikikomori Italia presieduta da Marco Crepaldi coinvolge circa 10mila persone in Lombardia (dal 10 al 15% sul totale nazionale), un migliaio a Milano, oltre 100mila in tutta Italia. «Si tratta solo di stime perché non esistono ancora dati ufficiali – sottolinea Crepaldi – ma la Lombardia è tra le regioni più colpite, con un gran numero di casi. Milano è tra le città dove il fenomeno è più presente». Gli hikikomori vivono più a Nord che a Sud e sono perlopiù maschi. Hanno un’età media di 20 anni, ma spesso il ritiro sociale inizia nell’adolescenza: le età critiche sono quelle di passaggio, dalle scuole medie alle superiori o dalle superiori all’università. E la causa scatenante a volte sono atti di bullismo o cyberbullismo, l’emarginazione da parte dei coetanei di ragazzi che spesso sono dotati di intelligenza sopra la media. «Come associazione riceviamo in Lombardia segnalazioni quasi quotidiane – spiega Crepaldi – ogni settimana emergono due o tre casi. Si tratta di un fenomeno che sta emergendo in questi anni e scuole e istituzioni non sono preparate per affrontarlo. Non esiste prevenzione e non ci sono forme di sostegno per i genitori, il problema finisce per gravare totalmente sulle spalle della famiglia. È fondamentale una corretta informazione, perché non va confuso con la depressione o con la dipendenza da internet».

L’associazione Hikimomori Italia è presente in Lombardia con quattro gruppi territoriali: Milano Nord e Sud; Bergamo-Brescia-Cremona-Mantova; Varese-Como-Lecco–Monza e Sondrio. Ne fanno parte 67 genitori, che si incontrano mensilmente in «spazi neutri», alla presenza di uno psicologo volontario. «I ragazzi sono più difficili da agganciare – sottolinea Crepaldi – in media ogni venti contatti di genitori ci scrive un ragazzo. Noi siamo partiti offrendo assistenza ai genitori, perché scuola e famiglia sono cruciali quando si manifestano i primi sintomi. Fare pressioni sul ragazzo, obbligarlo a uscire, è la cosa più sbagliata, porta all’effetto contrario». Un tunnel con vari stadi, che può durare anni. E per uscirne serve un lungo percorso. I numeri sono in aumento: il rischio è quello di arrivare ai livelli del Giappone, dove centinaia di migliaia di adolescenti hanno scelto di ritirarsi dal mondo e chiudersi nella propria stanza.

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