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Manovra, Senato approva maxiemendamento ma è polemica dalle opposizioni. Il metodo M5S colpisce ancora

L’iter però è ancora lungo: la commissione della Camera per la terza lettura è stata convocata il 27 dicembre, l’Aula il 28 e 29

Nella notte con 167 voti a favore, 78 contrari e tre astenuti, tra cui Mario Monti e il comandante De Falco (ormai sempre più dissidente del M5S), è stato approvato nell’Aula del Senato il maxiemendamento alla manovra. Tra qualche giorno i deputati della Camera saranno impegnati nella terza lettura del testo.

Le 270 pagine, presentate all’ultimo minuto ai senatori in Aula, rivoluzionano completamente i contenuti originari della legge di Bilancio e sono “influenzati” dai correttivi scaturiti dall’accordo con la Commissione europea e le intese sul filo di lana tra Lega e M5S.

Come avvenne alla Camera qualche settimana fa con il Decreto Genova, il governo pone la fiducia e nella notte ottiene il semaforo verde. E proprio come allora si è scatenata una bagarre tra la maggioranza e le opposizioni che gridano alla violazione costituzionale. E anche questa volta Pd, LeU e Forza Italia hanno di che lamentarsi.

Per la prima volta nella storia della Repubblica, come scrive anche De Angelis sull’Huffington Post, il Senato ha votato una manovra senza neanche aver avuto modo di leggerla in maniera approfondita né di discuterla.

In una corsa contro il tempo infatti, il via libera della commissione Bilancio sul maxiemendamento alla manovra arriva nella tarda sera di sabato, ma il testo è stato votato solo dalla maggioranza perché gli altri esponenti dei partiti hanno abbandonato la commissione. In Aula si leggono le correzioni solo dalle 19.30. Alle 23 circa si è già iniziato a votare. Una votazione alla cieca di una legge, che, ex articolo 81 della Costituzione, rappresenta il documento contabile preventivo che illustra al Parlamento le spese pubbliche e le entrate previste per l’anno successivo e che necessiterebbe quindi di un’attenzione quadrupla e di un’attenta disamina.

Ma che fine hanno fatto i paladini della democrazia diretta? I fautori dello streaming che inneggiavano alla trasparenza e che promettevano che avrebbero aperto il Parlamento «come una scatoletta di Tonno”? Dove sono quelli che urlavano “dovete farci votare, lasciate perdere la fiducia”? Hanno lasciato il posto a spietati calcolatori politici che a colpi di like e slogan obnubilano gli elettori, ergendosi a paladini una giustizia morale, di un bene comune, quando sono i primi a non rispettare le istituzioni, a umiliarle senza scrupolo alcuno. Abbiamo compreso subito che non erano personaggi di “forma”, ci hanno confermato anche di non essere uomini di “sostanza”.

Breve cronistoria sull’iter del testo

Senatori Pd fuori dalla Commissione Bilancio chiedono di vedere il testo del maximemendamento prima che arrivi in aula

L’arrivo del maxiemendamento, atteso da giorni dagli inquilini di Palazzo Madama, era previsto per le ore 14 di sabato 22 dicembre, pronto per essere analizzato e discusso fino alle 20,30, quando era in programma la votazione del Senato. Il testo però giunge a metà pomeriggio ma solo in Commissione Bilancio per alcune modifiche urgenti a causa dei numerosi errori presenti (commi ripetuti, numerazione sbagliata, articoli già stati cancellati da eliminare nuovamente) e quindi non ancora pronta per l’esame dell’Aula. Mentre all’esterno della Commissione le opposizioni, con i senatori del Pd tra i più agguerriti, gridano “fateci avere il testo” e altre invettive simili, i membri della commissione apportano le modifiche necessarie per presentare ai colleghi un testo che possa definirsi tale, anche se determinate espunzioni non sarebbero consentite dai regolamenti interni, specialmente dopo la bollinatura della Ragioneria di Stato. Alle 19.30, tutto sorridente, il ministro per i rapporti con il Parlamento Riccardo Fraccaro si presenta in Aula con il maxiemendamento in clamoroso ritardo, con il Senato nel pieno della protesta e nel caos più totale.

In più di un’occasione si è sventata la rissa, i senatori di Fi, in forte polemica con il governo, hanno alzato cartelli con su scritto “Più povertà per tutti? Fatto”: un chiaro riferimento alla “lista della spesa” pubblicizzata sui social dal vicepremier Di Mio alcuni giorni fa, nel quale si rivendicavano i risultati “raggiunti” da questo esecutivo. In aula inizia l’esigua discussione, ma sono più le proteste e le denunce di incostituzionalità che gli appunti sul testo. Non c’è tempo per rivedere le modifiche, si vota a scatola chiusa. Intorno alle undici e mezza iniziano le dichiarazioni di voto. E dall’una e mezza in poi le operazioni. Il clima è irrespirabile. Sugli scranni del governo solo il ministro dell’Economia Tria, Centinaio e lo stesso Fraccaro. Tria, nonostante bagarre e urla, rimane seduto e impassibile davanti alle schermaglie scoppiate a pochi centimetri di distanza. Ascolta, continuando a mantenere la calma, le istrioniche rimostranze di un senatore che getta i fogli in aria. Assenti illustri i due artefici di questa manovra rivisitata Salvini, che appare e scompare come un ologramma difettoso, e Luigi Di Maio. Entrambi fisicamente assenti ma entusiasti del “grande passo” che stava compiendo il Paese. Questo noi lo leggiamo dai social, lo deduciamo dalle loro dichiarazioni ma non ne siamo propriamente convinti.

Il resto poi è cosa nota: la maggioranza che grida al successo e brinda, proprio come fece dal balcone di Montecitorio asserendo con superbia di aver sconfitto la povertà, le opposizioni indignate invece chiedono a gran voce l’intervento del presidente Mattarella, che solo pochi giorni fa, in occasione degli auguri natalizi aveva ricordato la centralità del Parlamento, «espressione e interprete della sovranità popolare, è affidato il ruolo centrale nella democrazia disegnata dalla Costituzione. Ruolo che contrassegna ogni democrazia parlamentare e che va rispettato e preservato per non alterare l’essenza di ciò che la nostra Carta definisce e prescrive». I dem, capitanati dal senatore Andrea Marcucci (capogruppo Pd), attaccano non solo il merito ma anche il metodo d’azione dell’esecutivo che ha tenuto nascosti contenuti e numeri della legge più importante dell’anno, per svelarli solo all’ultimo istante, quasi di nascosto, regalando ai senatori una “piacevole” sorpresa di Natale. Il Partito democratico denuncia la violazione del regolamento di Palazzo Madama e dell’articolo 72 della Costituzione. Verrà perciò sollevato un ricorso diretto alla Consulta «affinché si pronunci sulla enormità che si sono compiute, sotto i nostri occhi e sotto quelli del Paese, da parte di questo governo violento che se ne frega dei diritti del Parlamento».

Fonte: ANSA

L’ex premier Matteo Renzi, ora al Senato, attacca a testa bassa: questa è «la retromarcia dei populisti» perché «la realtà presenta il conto», ridimensionando le misure annunciate dal governo giallo-verde. «Potete ingannare tutti per qualche tempo, e qualcuno per sempre, ma non potete ingannare tutti per sempre», chiude Renzi citando Abramo Lincoln. Forza Italia, per conto di Anna Maria Bernini, capogruppo del partito di Silvio Berlusconi, ironizza sulla “Manovra del popolo” e attacca: «Avete paura di mostrare le opposizioni? Dateci voce. Ci state facendo approvare una Manovra a scatola chiusa». Addirittura, come dei novelli Adamo, i grillini hanno gridato allo scandalo (si, proprio loro), incolpando di tutti i ritardi e gli errori il ragioniere generale dello Stato, Daniele Franco, già finito sotto accusa da parte dei pentastellati nelle settimane passate. Il capro espiatorio perfetto per dirottare l’attenzione sull’ennesimo attentato a mano armata alla democrazia.

I cambiamenti last minute

Due sono le novità più rilevanti rispetto al progetto iniziale: la prima interessa le graduatorie della Pubblica amministrazione, prorogate ma con dei paletti. La seconda più sostanziale, elimina la misura che imponeva una stretta agli autisti con conducente, gli Ncc. L’esecutivo prima parla di una “valutazione tecnica” delle nuove linee guida che «potrebbero comportare una scopertura», quindi annuncia che in Cdm notturno la norma prende la forma di un provvedimento a parte. Fa riflettere il fatto che sia stato eliminato proprio il provvedimento che alcuni giorni fa aveva scatenato la polemica in piazza a Roma dove erano state bruciate numerose bandiere del Movimento.

«Gli investimenti previsti nel prossimo triennio restano invariati, per un valore complessivo di circa 15 miliardi», assicurano dal governo. Certo, dopo l’accordo con l’Unione europea, l’ammontare triennale a carico del bilancio dello Stato è stato ridotto di 2,1 miliardi  ma «tali risorse saranno pienamente compensate con i fondi strutturali», spiegano fonti interne all’esecutivo.

Nonostante ciò che dice o scrive il ministro Di Maio, comunque la manovra ancora non è “Fatta”. Non vedrà infatti il via libera definitivo prima della fine della prossima settimana: la commissione della Camera per la terza lettura è stata convocata il 27 dicembre, l’Aula il 28 e 29. Senza dimenticare che giudice supremo resta comunque il presidente Mattarella, che può anche rifiutarsi di firmare il disegno di legge.

La giornata di ieri ha rappresentato l’ormai consueto teatrino a cinque stelle, dove la sciatteria e la confusione l’hanno fatta da padrone. La testimonianza viva di una “Nuova” classe politica che al rigore preferisce l’approssimazione, che alla competenza preferisce la retorica. Che vive di apparenza e che ha nascosto la sostanza sotto il tappeto. Una classe politica che ha fatto della comunicazione un fine e non più un mezzo. Una classe politica che è l’antitesi di se stessa. E questo sarà pure il governo del cambiamento, ma a me sembra si stia facendo il “gioco” descritto brillantemente e con lungimiranza da Tomasi di Lampedusa: “Bisogna che tutto cambi affinché tutto rimanga com’è”.

 

A cura di Giovanni Cioffi

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