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Donne e violenza, le parole senza ascolto

 

Solo il 18% di chi si è rivolto al Centro Antiviolenza Mascherona ha presentato denuncia Spesso prevale la paura delle ripercussioni
Nel 2018 si sono rivolte al centro Antiviolenza Mascherona di Genova 509 donne (nel 2017 erano 391). Ma solo il 18% tra loro hanno denunciato la violenza subita alle forze dell’ordine: questo, spiega il report stilato dalle operatrici, «perché molte donne hanno paura delle ripercussioni che l’autore della violenza subita potrebbe mettere in atto in seguito alla notizia della denuncia e, anche leggendo i fatti di cronaca, non si sentono tutelate dall’attuale sistema giudiziario». Non solo subiscono violenza, ma hanno paura di dirlo: soprattutto, di non essere credute, anzi messe in discussione o, ancora peggio, sotto accusa. E si intitola non a caso “Perché non si crede alla parola delle donne?” il convegno promosso proprio dal Centro Antiviolenza il 10 maggio 2019 presso le Cisterne del Ducale. Tra i punti principali della giornata (aperta a tutti, con crediti per l’Ordine degli Avvocati di Genova, l’Ordine dei giornalisti Liguria e l’Ordine degli Assistenti Sociali Liguria) con la presentazione, tra ‘altro, del “Rapporto Ombra” delle associazioni di donne per il GREVIO, il gruppo di esperte incaricate di monitorare l’attuazione della convenzione di Istanbul in Italia, ma anche l’esame di casi specifici, cosa si può fare a sostegno della donna e il problema sempre più esteso della vittimizzazione.

Parteciperanno psicologhe ed esperte antiviolenza (Manuela Ulivi, Silvia Cristiani, Ilenia Sanzo, Cristina Mastronardi, Teresa Bruno, Elisabetta Corbucci), magistrati (Fabio Roia e il procuratore Francesco Cozzi), il presidente degli assistenti sociali liguri Giovanni Cabona, la dirigente del servizio Prevenzione della Questura Alessandra Bucci, le giornaliste Francesca Forleo e Silvia Neonato.

«Purtroppo vediamo crescere sempre di più la diffidenza verso ciò che le donne dichiarano — spiega Rita Falaschi, storica animatrice del Centro — Non solo viene messo in discussione ciò che dicono, ma si trovano di fronte ad un atteggiamento giudicante: “perché non l’hai detto prima o perché finora hai taciuto?». Ma non solo, spiega ancora Falaschi: sempre di più, da parte anche delle forze dell’ordine e dei servizi sociali, per non parlare poi di avvocati e magistrati, «è la donna stessa e la sua vita che vengono messi sotto la lente: come si comporta, che tipo di vita fa, se per caso fa uso di antidepressivi…è un atteggiamento che abbiamo visto crescere in maniera inquietante negli ultimi anni. Le ragioni? Temo, al di là di un clima politico nel quale il disegno di legge Pillon è emblematico, che nel cervello della gente si stia insinuando di nuovo l’idea che le donne hanno la responsabilità vera di ciò che accade loro. Un clima che fa arrivare a quelle sentenze che abbiamo visto».

Il riferimento è alla sentenza di Ancona sulla ragazza «troppo brutta per essere stuprata» o altri casi del genere, nei confronti dei quali il rischio che il pregiudizio abbia il sopravvento su ciò che accade veramente è molto forte, riportando la condizione delle donne in Italia indietro di decenni. Il convegno genovese, avvertono dal Centro Antiviolenza, non vuole essere contro nessuno, visto che il lavoro di rete con i servizi sociali, le forze dell’ordine, avvocati e magistrati, è continuo: ma vuole costituire un segnale serio, una battuta d’arresto nei confronti di atteggiamenti che cercano di ribaltare le realtà della violenza domestica, familiare, di coppia, in una narrazione che vede gli uomini diventare vittime (presunte) delle loro stesse vittime. «Forse c’è anche un problema anagrafico: la sensibilità tra le operatrici era cresciuta molto a partire dal femminismo — conclude Rita Falaschi — con una formazione molto approfondita.
Che oggi, per ragioni diverse, non è più così…».

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