ITALIA

dall'

Solo notizie convalidate
[wpdts-weekday-name] [wpdts-date]

EDIZIONI REGIONALI

Solo notizie convalidate

EDIZIONI REGIONALI

Lotta a #femminicidio : l’Italia è troppo lenta, la #CorteEuropea dei diritti umanitari condanna il nostro #Stato

L’odissea di Elisaveta Talpis inizia nel 2013, quando decide di denunciare il marito per i numerosi episodi di violenza domestica. A seguito della denuncia, l’uomo tentò di uccidere la moglie e uccise il loro figlio diciannovenne. Le richieste di aiuto della donna e dei vicini della famiglia rimasero a lungo inascoltate, fino al tragico epilogo.
L’Italia protegge le donne dalla violenza domestica, ma secondo la Corte europea dei diritti umani la difesa è ancora troppo lenta.
La Corte europea dei diritti umani ha, infatti, condannato lo Stato per la lentezza con cui ha agito: «non agendo prontamente in seguito a una denuncia di violenza domestica fatta dalla donna, le autorità italiane hanno privato la denuncia di qualsiasi effetto creando una situazione di impunità che ha contribuito al ripetersi di atti di violenza, che in fine hanno condotto al tentato omicidio della ricorrente e alla morte di suo figlio».
La Corte ha rilevato la violazione, da parte dello Stato, della Convenzione per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà Fondamentali. Lo Stato, in particolare, non ha tutelato adeguatamente il diritto alla vita, sancito dall’art. 2 della Convenzione, e non ha evitato che fossero posti in essere i «trattamenti inumani o degradanti», vietati dall’art.3. La formula «trattamenti inumani e degradanti» comprende, infatti, anche gli atti mediante i quali siano inflitte a una persona dolore o forti sofferenze, fisiche o psicologiche, con il consenso tacito di funzionari pubblici o da un soggetto che agisca a titolo ufficiale. Questi articoli tutelano e riconoscono l’importanza di un diritto fondamentale, quello alla vita, che è centrale nelle società democratiche e che anche l’attività del Consiglio d’Europa mira a proteggere. Gli articoli 2 e 3 costituiscono il nocciolo duro della Convenzione e sono inderogabili: la loro tutela non può subire sospensioni, neanche temporanee. La Corte, inoltre, ha ritenuto l’Italia colpevole di non aver rispettato il divieto di discriminazione, sancito dall’art. 14 della Convenzione, che impone la garanzia del godimento dei diritti e delle libertà «senza alcuna distinzione di sesso, di razza, di colore, di lingua, di religione, di opinione politica o di altro genere, di origine nazionale o sociale, di appartenenza a una minoranza nazionale, di ricchezza, di nascita o di altra condizione». Un articolo che non può essere applicato autonomamente, ma esalta la tutela degli altri presenti nella Convenzione.
La sentenza, che, se non impugnata, sarà effettiva tra tre mesi, ha riconosciuto alla donna un risarcimento, per danni morali, di 30 mila euro e condannato lo Stato anche al pagamento delle spese processuali. Al di là del riconoscimento della lesione, da parte dello Stato, dei diritti della donna, ciò che la Corte ha sottolineato è stata l’incapacità delle autorità italiane di intervenire prontamente e in modo adeguato. I Centri antiviolenza sono attivi sul territorio nazionale e, come dichiarato dall’avvocato Zuccato, incaricata della difesa, anche la donna coinvolta nella vicenda si era rivolta a uno di questi, ma il procedimento avviato nei confronti del marito fu parzialmente archiviato per le ipotesi di maltrattamento in famiglia: il giudice di pace doveva esprimersi solo per l'ipotesi di lesioni. Uno Stato disposto a condannare la violenza sulle donne, ma che spesso finisce imprigionato nella tela intricata delle sue stesse leggi.

Facebook