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Durazzo, dal casato ai caseggiati

Parte prima
E’ nota come una delle più nobili famiglie genovesi, ma forse pochi conoscono le autentiche origini del casato Durazzo. Bisogna risalire agli anni intorno al 1380, quando un uomo, con moglie e tre figli, proveniente dall’Albania, forse proprio dalla cittadina di Durazzo (altre fonti raccontano che il nome di deve solo al porto di imbarco), giunge nella Repubblica di Genova come moltissimi altri che avevano lasciato il Paese d’origine alla ricerca di una vita migliore. In poche parole, oggi li si definirebbe “immigrati extracomunitari”. Allora si cercava salvezza dalle scorrerie dei terribili turchi ottomani, che spadroneggiavano e saccheggiavano i principati balcanici e che, nel 1389, avevano sconfitto i serbi cristiani ortodossi nella battaglia di Campo dei Merli (Kosovo), dove vivevano numerose famiglie albanesi convertite alla fede islamica.
Giorgio Durazzo probabilmente dovette lavorare come uomo di fatica o servo, per pagare il viaggio. Un documento datato 1389 registra una sua protesta formale al governo di Genova perché sarebbe stato ridotto in schiavitù a tradimento, mentre si trovava a Messina, dal mercante genovese Manuele De Valente, e quindi venduto. Il governo della Superba diede ragione a Giorgio Durazzo, che vince la causa e si stabilisce a Genova da uomo libero.
Verso la metà del ‘400, un tale Antonio Durazzo, probabilmente il nipote, avvia l’attività che farà la fortuna della famiglia: in zona Pietraminuta apre una bottega da setaiolo e una merceria. Furono molti gli albanesi che si inserirono nella società genovese diventando mercanti, viaggiando per l’Europa e prendendo parte attiva al governo cittadino.
Quando, nel 1528, è istituito l'albo della nobiltà, i Durazzo ne fanno parte come “Novi Nobili”. In poche parole, da schiavi a protagonisti della vita pubblica. Alla fine del ‘500 la quinta generazione dei Durazzo è fra le più ricche famiglie genovesi e nel 1573 Giacomo Durazzo diventa niente di meno che Doge di Genova. In duecento anni i Durazzo avranno otto dogi (nove, a contare il doge della Repubblica ligure del primo Ottocento), un arcivescovo, cardinali e diplomatici. Diventano padroni di molti eleganti palazzi in quella che era nota come Strada Balbi fino ad allargare la propria fama e quella della città che, nel ‘700, viene definita anche “repubblica durazziana”.
Oggi le cose sono molto cambiate e le vicende della nobile famiglia sono decisamente ridimensionate. Come accade sovente, Il cospicuo patrimonio e la notevole eredità sono motivo di aspra contesa fra i discendenti, a colpi di carte bollate, querele, citazioni, denunce, e altri provvedimenti che soprattutto fanno la felicità di diversi studi legali. Oggi i due fratelli della storica famiglia genovese, Stefano e Giuseppe, i cui avi giunsero in schiavitù dall’Albania, si combattono a testa bassa, dimenticando l’aplomb tipico dei passati fasti e degli antichi rappresentanti del casato. Oggi più importante del casato pare siano i caseggiati che ricadono fra le proprietà del blasone.
Poco prima della morte del genitore, non si sa per quale preciso motivo, la madre decise di vendere diverse proprietà immobiliari a vantaggio del figlio Stefano, a quanto pare sottraendole al diritto del fratello Giuseppe, che naturalmente non è rimasto a guardare, ma ha intentato una causa legale a Stefano (il quale, di fatto, svolge la professione di agricoltore-coltivatore diretto, sembra senza averne pieno diritto secondo le leggi in vigore) richiedendo addirittura un esame autoptico sul corpo del defunto padre. Non si sa se con l’intenzione o la speranza di trovare una eventuale prova che avrebbe potuto utilizzare nelle aule dei tribunali, o per togliersi lui stesso, in prima persona, ogni dubbio o sospetto sulla causa del decesso.
La diatriba dura da diversi anni, e si è sviluppata in quella che, a tutti gli effetti, appare come una vera e propria “Dinasty di casa nostra”, la cui fine sembra sia ancora parecchio lontana…
P.R.
(Nell’immagine, il palazzo Durazzo di Piazza della Meridiana a Genova)
Fine prima parte

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