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Concordia: ancora bugie sull’operazione recupero

Isola del Giglio – Nella relazione periodica delle operazioni di rimozione della Costa Concordia, alla pagina 9 si legge: “Le operazioni di trivellazione della piattaforma n.1 continuano lentamente a causa presenza di sabbia in corrispondenza dei punti di trivellazione. Le difficoltà incontrate per la perforazione dei pali di largo diametro costringono ad utilizzare ancora sostanze chimiche quali il “waterglass”. Il monitoraggio della torbidità effettuato nei giorni scorsi sia nella fase di iniezione del materiale sul fondale che nella fase di trivellazione, non evidenzia situazioni particolari di torbidità”. Questa come altre, sono le risultanze di quanto sta avvenendo addosso e sotto la nave.
Riteniamo superfluo e scontato sottolineare che ancora una volta i fatti hanno dato prova della assoluta incompatibilità dei fondali con le lavorazioni previste.
La cosa che maggiormente sconcerta è che nessuno ha mai fatto cenno o preso atto che la natura geologica dei fondali non sarebbe stata idonea a questo genere di lavorazioni. Nulla da eccepire sulla scelta delle aziende che stanno operando di livello mondiale e prime al mondo per questo genere di lavori. Si deve necessariamente ed ancora eccepire sulle scelte progettuali, sulle metodologie di recupero che passano per la distruzione a tappeto dei fondali con l’impiego di esplosivi  in una certa fase, di sostanze chimiche quali il silicato di sodio detto anche “waterglass”, sostanza non del tutto scevra da controindicazioni circa l’impiego in mare.
Tutto questo, oltre a comportare un notevole aumento dei tempi, determina un consistente aumento dei costi che ad oggi sono stimati in circa 400 milioni di dollari per avere, al momento, nessuna certezza che conduca alla risoluzione del problema così come auspicato.
Abbiamo chiesto ad un geologo di illustrare e spiegare quali possano essere i problemi legati alla generica presenza di “sabbia” molto genericamente imputata delle anomalie nelle perforazioni.
In realtà la situazione è molto più articolata e complessa se si esamina attentamente la geologia dei luoghi e dei materiali rocciosi ad essa competenti e porta, come avremo modo di vedere, a conclusioni tutt’altro che edificanti riconducibili alla “malafede” con la quale si è proceduto e si sta procedendo nella vicenda. Non vorremmo in questa sede pubblicare un trattato di geologia del territorio ma è necessario quanto meno dare delle definizioni ed entrare nel merito del problema “sabbia”.
In realtà le cose stanno in modo molto diverso da quanto si vuole far credere. In letteratura, a partire dagli anni ’60 e fino al 2003, esistono evidenze circa la struttura litogeologica dell’isola, fin troppo chiara ed evidente. Numerosi autori (Westerman 1963, Rossetti 1999, e ancora Westermann 2003, Alberti 1970, Capponi 1997) hanno studiato e determinato la natura geologica dell’isola, e in sostanza sono state definite ed ampiamente documentate tutte le principale zone geologiche dell’isola che sono: Meta-sedimenti riferibili al Verrucano Toscano del Triassico medio-superiore; Melange tettonico (metapeliti e calcescisti) e roccie metabasiche del tardo Giurassico; Dolomie massive e calcari stratificati in associazione  a brecce tettoniche di Calcare Cavernoso.
Il contatto tra le unità tettoniche e il monzogranito è costituito da una zona di faglia ampia circa 50 metri ed orientata NNO-SSE (Rossetti e altri, 1999)
I litotipi descritti sono stati raggruppati secondo quanto previsto dalla legenda geomorfologica delle linee guida edite dal Servizio Geologico Nazionale (1994) in distinti accorpamenti ovvero: rocce prevalentemente calcaree; rocce prevalentemente arenitiche; rocce ruditiche; rocce effusive e vulcano clastiche; rocce metamorfiche scistose; rocce intrusive e metamorfiche massive per il resto dell’isola.
Si evince chiaramente che quanto è a vista sulla terra ferma è ancor più verosimilmente presente in mare.
Ma veniamo al fatto. Già abbiamo riportato quanto asserì il prof. Casagli il quale sottolineò, se pur in presenza di scarsi quanto superficiale dati, che molto verosimilmente la natura dei graniti, pur presentando buone caratteristiche geotecniche, poteva presentare elevati gradi di fatturazione tali a far ripensare il progetto nella sua interezza fino a qual momento basato su perforazioni in profondità di pali di grosso diametro. Successivamente sono state commissionate ed eseguire una serie di perforazioni per la caratterizzazione degli strati rocciosi nelle immediate adiacenza della nave. Riesce molto difficile pensare che le risultanze di tale campagna abbia dato esiti positivi circa la affettiva possibilità di effettuare trivellazioni di quel tipo di quel diametro senza potenzialmente incontrare tutte le difficoltà che in effetti si stanno incontrando. In altri termini com’è possibile far rientrare nella normale alea di errore  la presenza di graniti fratturati piuttosto che integri quando le evidenze “ a vista” nelle zone costiere interessanti anche punta Gabbianara, danno evidenze di un sistema fortemente fratturato quindi non particolarmente facile da perforare?
Ma in realtà cos’è la sabbia della quale si parla insistentemente nei rapporti settimanali’? Non è sabbia ma ben altro. Se si esclude l’eventuale presenza superficiale dei materiali provenienti dalla disgregazione superficiale dei graniti, facilmente asportabile in quanto semplice materiale di deposito, la presenza di “sabbia” sotto forma di “inclusioni” in formazioni granitiche è geologicamente  da escludere senza tema di smentita.
Restano altre ipotesi sulle quali ragionare ma che non passano per la “sabbia” o ciò che viene spacciato per sabbia. Potrebbe trattarsi di  “tafoni” granitici un tempo fuori acqua nelle cui cavità si sono depositati e parzialmente cementati depositi costituiti dai materiali di disgregazione dei graniti stessi. Oppure potrebbe trattarsi si una eccessiva fragilità alla perforazione con utensili a “cutter”,  con i quali si sta perforando , a fronte della quale cospicue quantità di materiali non  perfettamente stabili  finiscono per intrappolarsi  tra gli utensili  e le pareti del foro stesso fino a bloccarne l’azione. Oppure una eccessiva disgregazione delle pareti  del foro in prossimità della sezione di avanzamento che frana all’interno del foro stesso vanificando l’azione di perforazione e, per certi versi la verticalità del foro stesso, in mancanza della quale, anche in questo caso si ha il blocco della testa di perforazione. Da qui l’impiego di sostanze quali il gel waterglass , silicato di sodio per poter sostenere le pareti del foro durante  la perforazione fino al getto definitivo di intasamento del foro e dell’armatura in esso posta. E fin troppo evidente che le tecniche di perforazione da adottare in questi casi sono ben diverse da quelle che sono state fin qua adottate, fidando sull’integrità litologica del materiale, che in realtà integro non è. In sostanza sapendo di avere a che fare con materiali non propriamente compatti ma al contrario nella quasi totalità fratturati, comporta porre in essere tutt’altro genere di attrezzature e di accorgimenti che consentono, anche se con molte difficoltà di eseguire perforazioni in questo genere di geologia.
Siamo dunque ai soliti “giochetti” di convenienza politica ed economica? Il ragionamento è molto semplice. Ammettere la non fattibilità delle perforazioni avrebbe significato ripensare il progetto nella parte riguardante i lavori offshore. Ripensare il progetto avrebbe significato ammettere la propria incapacità di progettare cose fattibili e al contempo, per il consorzio T/M, abbandonare i lavori con ingenti perdite di immagine e finanziarie relativamente ai “soldi facili”. Tutto questo,cari lettori, pesa tanto e peserà ancora sulle tasche dei contribuenti ai quali, molto verosimilmente verrà addossato l’onere di completare i lavori in qualche modo, lavori che ad oggi non hanno alcuna valenza di successo.

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