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L’antitrust negli Stati Uniti

Culla della normativa antitrust sono stati gli Stati Uniti, dove già nel 1890, lo Sherman Act aveva dichiarato illecito ogni contratto o cospirazione restrittivi del commercio tra Stati o con nazioni estere. Una normativa senza dubbio severa, ammorbidita dalla giurisprudenza. Sostanzialmente si trattava di un provvedimento volto a punire, ex post, determinati comportamenti. Occorrerà attendere il 1914 per vedere l’approvazione di una normativa di prevenzione della formazione di monopoli, introdotta dal Clayton Act.

Il Clayton Act estendeva le previsioni contenute nello Sherman Act, giungendo a proibire alcuni comportamenti che, se adottati, avrebbero potuto provocare la formazione di monopoli: si vietava, ad esempio, la discriminazione nel prezzo di vendita, così come le clausole restrittive alla vendita e si proibivano le fusioni e le acquisizioni mirate ad aumentare il profitto. Nello stesso anno, inoltre, si provvedeva a costituire il primo organismo garante della concorrenza: la Federal Trade Commission.

Ventidue anni dopo, nel 1936, con il Robinson-Patman Act si modifica il Clayton Act, al fine di introdurre una tutela dei piccoli commercianti vietando comportamenti, quali la discriminazione di prezzo, fortemente anticompetitivi, che consentivano alle grandi catene di distribuzione di acquistare beni a prezzi più bassi rispetto agli altri operatori del mercato.

Infine, nel 1950 sarà il Celler-Kefauver Amendment ad estendere il controllo antitrust anche alle concentrazioni realizzate mediante l’acquisto di “o una parte dell’assetto di un’altra società”.

A questa evoluzione normativa si associa quella interpretativa, caratterizzata da una prima fase di oscillazione tra decisioni che tendevano a dare scarsa attenzione all’esigenza di tutelare la concorrenza e altre che, invece, si fondavano su un’interpretazione letterale delle norme. A seguire questo periodo di incertezza sarà un quadriennio in cui la giurisprudenza inizierà a contribuire a rafforzare il quadro normativo, che raggiungerà il suo massimo con lo sviluppo delle cd. Rule of reasons, fino a quando la Suprema Corte giungerà a riconoscere “restrittivo” ogni accordo in grado di impattare sul commercio. Si rende necessario, dunque, chiedersi se le restrizioni si limitino a regolare la concorrenza oppure siano in grado di distorcerla. In tal senso, sarà compito del giudice valutare i fatti, la natura e gli effetti della condotta, anche osservando quale è l’intento perseguito dalla stessa. Grazie agli interventi della Suprema Corte, l’accertamento di una violazione dello Sherman Act non si limitava più soltanto alla verifica dei requisiti da questo indicati, ovvero la condotta concertata e la capacità di tale condotta di compromettere la concorrenza. Ad accompagnare questi due elementi vi era un terzo: l’irragionevolezza.

Il vero punto di svolta nella giurisprudenza è segnato dallo sviluppo, per rimediare alla complessità delle ricostruzioni che i giudici avrebbero dovuto elaborare, della per se condemnation, uno strumento che fissa una presunzione di illiceità di alcuni accordi palesemente restrittivi della concorrenza e immotivati sotto il profilo dell’efficienza economica. I mercati, dunque, sono studiati staticamente, considerando sempre la struttura, ovvero il livello di concentrazione industriale, il grado di differenziazione del prodotto, l’esistenza o meno di barriere all’entrata, la condotta, ovvero l’attività economica, e la performance, ovvero il livello di sviluppo tecnico e di efficienza e il rapporto tra prezzo e quantità del prodotto.

Lo studio dei mercati diviene dinamico grazie all’apporto della Scuola di Chicago, che promuove l’analisi del comportamento razionale degli agenti economici in un mercato competitivo. Nell’approccio statico è, difatti, assente l’analisi della dinamica delle relazioni fra le imprese che operano nel mercato. Per massimizzare il benessere sociale è necessario che il mercato realizzi liberamente l’efficienza allocativa. Compito dell’antitrust è garantire che sia raggiunta l’efficienza allocativa e intervenire solo quando non sia dimostrata l’efficienza produttiva derivante dalla libera attività economica. Ciò che dobbiamo riconoscere alla Scuola di Chicago è il merito di aver messo in luce la rilevanza delle scelte delle imprese e aver analizzato comportamenti che primano erano considerati a priori anticoncorrenziali. L’anticoncorrenzialità, dopo l’intervento della Scuola di Chicago, deve essere provata, dimostrando il difetto del perseguimento di una razionalità economica, da parte dell’impresa.

Ma ciò che la Scuola di Chicago ha evidenziato costituisce solo una parte della realtà del mercato e delle scelte strategiche delle imprese. Si è resa così necessaria l’elaborazione della teoria della Raising Rivals Costs, che permette di individuare, in determinati comportamenti economici di un’impresa, una motivazione di danneggiamento strategico dei concorrenti. Questa teoria ha contribuito a qualificare pratiche escludenti, difficilmente inquadrabili come razionali e, allo stesso tempo, non effettivamente anticoncorrenziali.

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