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Drammi sanitari, storie infinite di liste d’attesa, il futuro della #sanità precipita nella burocrazia

La formula della sanità pubblica, e forse purtroppo della maggior parte dei servizi pubblici in Italia, è racchiusa in queste due brevi frasi che almeno una volta chi “frequenta” gli ospedali si è sentito dire: “La lista d’attesa è di diversi mesi. Ma a pagamento può venire già domani”.

I dati nazionali diffusi dall’ultimo Pit Salute 2015 e 2016 parlano di tempi medi previsti, dal piano del Ministero della Salute recepito dalle Regioni e tuttora in vigore, per visite ed esami diagnostici rispettivamente di 30 e 60 giorni.

La realtà dei fatti parla però di tempi di attesa molto più lunghi, che in alcuni casi sfiorano o superano l’anno. Basti pensare che sono ben tredici i mesi per una risonanza magnetica; un anno per una mammografia o una Tac; nove mesi per un’ecografia; sette per una radiografia.

Per quanto attiene alle visite mediche la situazione non è meno catastrofica: tredici mesi per una visita psichiatrica, nove per un controllo oculistico, otto per un appuntamento dal cardiologo, sei per essere ricevuti dall’oncologo e altrettanti dall’ortopedico.

Seppur quindi i pazienti versano più soldi nelle casse dello Stato per la sanità pubblica (in due anni l’incremento registrato è stato pari al 3,2%, il doppio rispetto all’aumento della spesa per i consumi delle famiglie nello stesso periodo, pari a +1,7%) molto spesso sono costretti a pagare per poter effettuare l’accertamento o la visita di cui hanno bisogno nei tempi in cui è necessario effettuarle. Per non parlare poi della prevenzione. Nessuna prevenzione è possibile in una sanità con dei tempi di attesa così lunghi.

La sanità pubblica è come un cane che si mangia la coda: il mancato rispetto delle liste di attesa, troppo lunghe o superate pagando un extra, una mazzetta con le quali si può scalare la lista, è il principale responsabile del fatto che i pazienti debbano andare fuori Regione a fare gli esami mettendo in atto quella che è stata definita “mobilità passiva” che costa ancora una volta altri soldi ai contribuenti.

Sullo scandalo delle mazzette per superare le liste d’attesa uno degli ultimi casi, o semplicemente uno di quelli noti, è stato quello che ha coinvolto l’Ospedale Ruggi, dove il dottor Luciano Brigante, primario di neurochirurgia, è stato arrestato a giugno con l’accusa di aver dato la precedenza ad alcuni pazienti in cambio di denaro.

Pagati duemila euro in contanti direttamente nelle mani del primario, per un intervento per un malato di cancro che secondo quanto affermato dal medico “doveva essere operato d’urgenza” e la lista d’attesa era troppo lunga per farlo aspettare. La famiglia dell’uomo, 49 anni, deceduto poi il 2 dicembre 2015, che aveva lottato due volte contro il cancro, aveva ovviamente ceduto alla richiesta facendo una colletta per raccogliere il denaro necessario per salvargli la vita, per intervenire in tempo.

Ogni anno la corruzione, secondo l’ultimo report di Transparency international, sottrae alla sanità circa sei miliardi di euro, un’azienda su tre ha registrato fenomeni di corruzione e oltre il 90% delle strutture è a rischio tangenti.

Nell’ultimo anno 11 milioni di italiani – uno e mezzo in più rispetto all’anno precedente – hanno rinunciato alle terapie a causa dei tempi troppi lunghi e dell’impossibilità di pagare una visita privata o in intramoenia.

Ma se poi si riesce a superare il dramma delle lunghe attese e finalmente si giunge all’agognata visita esame con la conseguente terapia ne sarà poi alla fine valsa la pena in termini di qualità del servizio offerto?

La risposta a questa domanda è dipende. Perché c’è differenza a secondo del centro, del medico, dei macchinari, della Regione, ed ovviamente tra pubblico e privato.

Potrebbe infatti capitarti di essere sottoposto ad un programma riabilitativo presso una struttura convenzionata con la tua Regione, come è successo a W.S., dove il programma non apporta alcun miglioramento alla tua situazione e se ti sposti in un'altra struttura non convenzionata, in una altra Regione, dove ti tocca pagare di tasca tua per essere curato, ottieni invece dei visibili miglioramenti, salvo poi richiedere l’intervento della magistratura per poter avere la speranza di essere rimborsato dei soldi spesi.

Perché se infatti quella specifica terapia pagata dal malato alla struttura privata, la cui efficacia al singolo caso è dimostrabile in base ad evidenze scientifiche, che apporta anche semplicemente un miglioramento nelle condizioni del malato (recupero funzionale parziale, maggior benessere soggettivo) e non solo quindi la regressione della malattia, non sostituibile con un'altra già ordinariamente fruibile attraverso il servizio sanitario nazionale, potrebbe accadere che venga rimborsata.

Un eccellenza nel dramma delle liste d’attesa.

All’istituto tumori dell’ospedale Regina Elena di Roma l’impossibile, in un sistema sanitario dove le medie nazionali parlano di tempi che si avvicinano ai 6 mesi per una visita oncologica e tempi che superano l’anno per una tac, è stato reso possibile: prenotazioni, esame e referto viene effettuato tutto in due giorni.

Al paziente, come dovrebbe essere normale in un sistema che funziona, dove l’eccezione dovrebbe essere la regola, basta telefonare per richiedere l’esame e ottiene subito un appuntamento.

24 esami Pet in un giorno, una lista d’attesa di due giorni dove prima ce ne era una di tre mesi.

Tempi inaccettabili per una tac fondamentale per la diagnosi del cancro che costringevano i malati ad effettuare l’esame in un'altra Regione, oltretutto con un costo maggiore per la Regione Lazio a causa della mobilità passiva.

Più fattori hanno concorso al raggiungimento di questo risultato: riorganizzazione ed ottimizzazione di tutto il percorso che il paziente svolge nella struttura (dai turni alla formazione del personale, dalla ricezione del paziente al farmaco necessario per svolgere l’esame Pet) ma anche importanti investimenti tecnologici fatti con la Regione e il Ministero.

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