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Scarpe firmate, Inchiesta shock del The Guardian: la dicitura “made in” non corrisponde alla realtà, lavoratori sfruttati

Secondo quanto emerso da un’inchiesta apparsa sul The Guardian, milioni di acquirenti di scarpe firmate verrebbero in relatà ingannati. Sembrerebbe infatti che la scritta made in Italy o in Europa non corrisponda al vero: queste scarpe sarebbero invece realizzate altrove sfruttando la manodopera dell'Europa orientale.
L’indagine schiacciante nel settore calzaturiero europeo, dettaglia i salari e le condizioni di lavoro illegali e scioccanti nelle fabbriche relativamente alle calzature prodotte per il mercato del Regno Unito. L'inchiesta sostiene che alcuni grandi marchi sembra stiano utilizzando una scappatoia legale, marchiando i loro prodotti con “Fatto in Italia” o “Made in Germany” per suggerire che siano di alta qualità, quando sono effettivamente state materialmente prodotte dai lavoratori dell'Europa orientale colpite dalla povertà. Lo studio ha accertato che i lavoratori di calzature in Albania guadagnavano poco meno di 49p (49 centesimi di sterlina) all'ora inclusi gli straordinar. Molti lavoratori in Macedonia, dove il salario orario è stabilito a partire da 64p vengono frequentemente portati in ospedale, dopo lo svenimento in fabbrica dovuto lavoro a contatto con prodotti chimici aggressivi.
La ricerca condanna il sistema OPT come “uno schema mortale per i lavoratori, le economie e le imprese nazionali” e lo descrive come “una strada economica e sociale alla rovina”. I ricercatori hanno riscontrato che le fabbriche producono scarpe per marchi quali Zara, Lowa, Deichmann, Ara, Geox, Bata e Leder & Schuh AG e società controllate da CCC Shoes & Bags in Polonia e Rieker e Gabor in Slovacchia. Bata non ha affrontato le accuse direttamente, ma accolto con favore la relazione, sottolineando che “aveva fornito spunti interessanti nelle condizioni di lavoro in genere sotto-segnalati in Europa orientale”.
Anna McMullen, dal Labour Behind the Label , un gruppo con sede nel Regno Unito per i diritti dei lavoratori coinvolti nel rapporto, ha detto che i consumatori avevano bisogno di conoscere la verità su dove provengono le loro scarpe, queste le sue parole: “Lo stratagemma intelligente di spedizione di parti di calzature verso paesi a basso salario nell’est d'Europa per l'assemblaggio e l'incollaggio, prima di restituirle per l'etichettatura come 'made in Europe', equivale ad ingannare i consumatori a pensare che i loro prodotti sono realizzati con dignità. In effetti, ora sappiamo che i lavoratori in Albania e Macedonia vengono pagati con salari così bassi che non possono sfamare le proprie famiglie – tanto che il divario tra il salario minimo e la vita è più grande che in Cina. Questi metodi out-sourcing utilizzati da alcune marche stanno girando i profitti di massa alle spalle della povertà dei lavoratori. La necessità di fast fashion sta portando la produzione di scarpe più vicino a casa, e con essa arriva la concorrenza dei salari con l'Asia …I lavoratori guadagnano meno di un quarto del salario che hanno bisogno per vivere con dignità, nonostante fatichino in maniera massiccia lunghe ore per raggiungere gli obiettivi. 'Made in Europe' significa non 'fatta con dignità“.
I gruppi che stanno dietro il rapporto vogliono che i produttori siano più trasparenti indicando dove fanno in realtà le scarpe che sono in vendita in Gran Bretagna e su salari e condizioni di lavoro. Per chi conosce la fine dei distretti calzaturieri in Italia si tratta di fatti già noti, ma la circostanza che anche in Gran Bretagna, che costituisce un fiorente mercato per le grandi e medie firme italiane, si sia indagato sulle condizioni dei lavoratori, costituisce un severo monito verso i produttori ed un invito ai consumatori anche italiani a pretendere che si conosca la reale provenienza delle scarpe che si vanno ad acquistare anche perché alla luce di quanto detto i prezzi cui vengono vendute sul mercato nazionale sono palesemente eccessivi rispetto a quelli di produzione.

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