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Si stava meglio quando si stava peggio. La magia delle piccole cose nella povertà degli anni ‘50

Si stava meglio quando si stava peggio. Una frase che avremo sentito dire migliaia di volte nella nostra vita. Ascoltando i genitori, le signore in coda dal medico curante, in fila alle poste centrali, nei dibattiti pubblici, ma soprattutto dai nostri nonni. In particolare, le nonne sono abili nel dimostrare attraverso il racconto delle loro vite momenti di magia, incredibili al giorno d’oggi, attimi di inverosimile bellezza insita all’essere umano che quasi sembra sfuggirci dalle mani. Le stesse mani che hanno avuto il privilegio di raccogliere il coraggio della vita che hanno vissuto nelle guerre e nei dopoguerra, oggi sfiorano le nostre nel frammento di un racconto, di un aneddoto che quasi non riusciamo a comprendere, per la sua infinitezza. Nonostante la loro entità di difficile comprensione e adeguatezza ad un’era in cui tutti vogliono tutto e credono di poter fare tutto nel momento stesso in cui sembra non si possa fare nulla, le piccole storie raccontate dalle nostre nonne non possono fare a meno di essere accolte dal nostro cuore e, con grande ammirazione, è per noi un onore poter raccogliere quei frammenti di saggezza che auspicano di finire nelle culle del futuro.
Il risveglio del dopoguerra è stato duro per tutti, specialmente a partire dalla caviglia dello Stivale. Le donne con la guerra avevano imparato ‘il mestiere’ dei mariti, spesso lavoravano in casa come sarte, cucitrici, allevatrici, non c’è stato nulla che abbia potuto fermarle. Sono loro le donne che hanno partorito una generazione di vittoriose, quelle in grado di supportare quello che sarà il boom economico degli anni ’50-‘60 , le stesse femministe del ’70. È grazie a loro che oggi possiamo essere ciò che vogliamo, al di là del genere, dello stato sociale, perfino degli stessi pregiudizi che a grandi gomitate si spingono nel secondo millennio e faticano a mollare la presa. Tra i racconti delle nonne di tutti figurano i momenti di magia vissuti intorno alle povere tavole italiane del dopoguerra, quelli vissuti con tozzi di pane, acqua e tanta allegria. Come nei ricordi di Nonna Maria1 che non hanno mai smesso di vivere e riprodursi, almeno per la gioia dei nipoti.
“Ricordo che eravamo 7 bocche e un pezzo di pane, mammà faticava pure 16 ore al giorno per sfamarci – racconta in dialetto Nonna Maria – Quando è morto papà io ero bambina e a 5 anni ho avuto il compito di fare la spesa. Andavo al paese a comprare frutta, verdura e pane e avevo imparato il modo di scegliere i pezzi migliori. Il fruttivendolo mi odiava, diceva che gli lasciavo solo la frutta marcia – continua ridendo – Tutti lavoravamo e il maggiore guardava il minore dal più grande al più piccolo. Ci dividevamo i compiti e ‘ la barca galleggiava’.”
“Non esistevano i giocattoli e non esisteva infanzia come spensieratezza. Tutti conoscevamo la vita e imparavamo a combatterla per avere la meglio” prosegue tra un racconto e l’altro Nonna Maria – Ci davamo da fare, a 9 anni lavoravo alla macchina da cucire pure 15 ore al giorno, facevo i guanti. Ma come ero felice, quando finivo di lavorare potevo andare a giocare nel quartiere di casa con i miei fratelli e sorelle.” “Quando ero bambina non esistevano neanche gli assorbenti. Usavamo le lenzuola vecchie, le strappavamo e ne ricavavamo dei pannetti. In casa non avevamo elettrodomestici, non avevamo televisori, né lavatrici, né il telefono. Quando dovevamo rintracciare un parente o un amico usavamo il passaparola con il vicinato e gli mandavamo a dire che lo stavamo cercando. Se dovevamo chiedere un’informazione in un ufficio in particolare si andava in città e si andava a piedi, camminavamo giornate intere da una parte all’altra della città – dichiara Nonna Maria quasi con stupore, tenendo conto di quello che abbiamo oggi alla portata di tutti. Contemporaneamente sul volto è visibile una linea nostalgica. “Eppure eravamo felici. La sera mammà raccontava le storie intorno al fuoco. Quando diventavamo signorine e il giovane del quartiere ci faceva la corte eravamo piene di gioia. Io stendevo il bucato sul balcone e un giovanotto che lavorava nel quartiere mi guardava dal basso, tutti i giorni. La mia risposta era un’occhiata di nascosto e rientravo dentro. Se mi incontrava per strada si fermava all’angolo a comprare i fiori e me li portava. Quando con il tempo ho deciso con mammà e i miei fratelli che potevo dargli una possibilità mi veniva a prendere a casa portandomi ogni volta una delizia, ora i dolci, ora le frittelle, e mi portava tutte le sere al cinematografo. L’emozione che provavo solo se mi guardava tra una scena e l’altra del film non posso descriverla, mi dava la mano di nascosto perché affianco a me c’era mia sorella maggiore.”

1: pseudonimo

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