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Karlovy Vary 3 l'Italia alla riscossa

La commedia e la sua derivazione spinta, la farsa, costituiscono un genere che attraversa, con grande favore del pubblico, la storia della cultura italiana. Da noi, ancor più che in altri paesi mediterranei, le opere capaci di suscitare il riso sono sempre state particolarmente apprezzate. Si pensi, solo per fare i primi esempi che vengono in mente, alla commedia dell’arte trasmigrata e trasformata nella struttura, ma non sempre nella sostanza, nel teatro goldoniano, oppure alla letteratura boccaccesca del quattordicesimo secolo. Nel cinema questo filone ha avuto grande fortuna dall’inizio degli anni sessanta del secolo scorso, Divorzio all'italiana (1961) di Pietro Germi, sino alla metà dei settanta (Amici miei di Mario Monicelli, 1975). Questo percorso, detto della commedia all’italiana, è costellato di titoli molto importanti, tali da permettere di tracciare un quadro della società. Un itinerario ironico, feroce e preciso. I frutti migliori sono stati colti quando lo sberleffo si è unito sia al panorama sociale in cui le storie erano inserite sia ai segni premonitori di ciò che stava dietro l’angolo. In questo senso Il sorpasso (1962) e I mostri (1963) di Dino Risi rimangono punte insuperate. Viva la libertà di Roberto Andò (1959), unico titolo italiano nel cartellone del concorso, porta la firma di un autore che ha alle spalle anche una corposa e pregevole carriera di regista teatrale. Già la semplice trama, densa com’è di riferimenti pregevoli e colti sia al cinema sia al palcoscenico, testimonia uno spessore culturale non usuale, unito a una robusta voglia di confrontarsi con il presente. Siamo ai giorni nostri e il maggior partito della sinistra d’opposizione (un Partito Democratico neppur troppo celato) brancola in un’inattività che rasenta la paralisi. E’ prigioniero di rituali polverosi che ne stanno progressivamente erodendo il consenso e precorso da correnti e tensioni intestine. Lo guida un Segretario serio e grigio, che non riesce quasi più a stabilire un vero rapporto con militanti ed elettori. Consapevole della catastrofe imminente decide di scomparire. Senza avvisare nessuno s’imbarca su un volo per Parigi ove trova ospitalità in casa una vecchia fiamma ora moglie di un famoso regista. Il suo segretario personale ha l’idea di sostituirlo, persino il Presidente della Repubblica è preoccupato di ciò che sta succedendo, con il fratello gemello, un professore di filosofia mattacchione che entra ed esce da cliniche e manicomi. Il sosia si rivela un grande trascinatore di folle e questo semplicemente perché dice alla gente le cose come stanno e riesce a toccare, con qualche vezzo intellettuale, le loro corde migliori. Il finale è ambiguo: forse il vero Segretario Generale ritorna e riprende il suo posto, ammaestrato dalla saggezza naif del gemello, oppure è quest’ultimo a installarsi definitivamente sulla poltrona del latitante. Siamo, in altre parole, sul terreno dei gemelli che si scambiamo i ruoli, un tema caro al teatro dai tempi de I menecmi (fine del III secolo a.C.) di Tito Maccio Plauto (255 – 250 a.C. – 184 a.C.) sino a quelli de I due gemelli veneziani(1750) di Carlo Goldoni (1707 – 1793). La vera originalità del film sta nell’adattamento armonioso di una situazione già ampiamente sfruttata, traendone un film amaro e divertente, comico e denso di motivi di riflessione.

Bronislawa Wajs (1908 – 1987) è stata una poetessa polacca di etnia Rom, conosciuta con il nome gitano di Papusza. A lei i coniugi e registi polacchi Joanna Kos e Krzysztof Krauze hanno dedicato un film che ripercorre le tappe salienti della sua vita. S’inizia con la nascita in un campo innevato e si prosegue per tappe che marciano avanti e indietro nel tempo mostrandoci le dure condizioni di vita dei gitani, le repressioni naziste, la pretesa del regime realsocialista di negare la loro vita nomade costringendoli in case – vere e proprie catapecchie – di città e impartendo ai loro figli una cultura del tutto diversa da quella in cui erano stati allevati. Questa poetessa fu anche la prima gitana a veder pubblicate le proprie opere e, per questo, fu emarginata dalla sua etnia con l’accusa di aver svelato i segreti della comunità. Il film è costruito su immagini in bianco e nero magnificamente cesellate e di taglio pittorico. Una sorta di mosaico visivo fatto di piccole tessere cadenzate come le parti di una sinfonia che tende a ricostruire il ritmo delle opere di una poetessa a cui si devono strazianti versi sulle difficili condizioni di vita e sulle ferite che colpirono i rom sotto vari regimi, in particolare ad opera dei nazisti. Il film ha una sua bellezza solida e avvincente, ma non sa scegliere fa l’opera biografica e il quadro storico. In questo modo rimane vittima di un’indecisione che colpisce anche il versante narrativo, con contenuti che non legano con la perfezione e bellezza di quanto proposto sullo schermo. Come dire che il lato specificamente formale finisce col dominare la scena, mettendo in ombra le riflessioni sociali, politiche e storiche. Si ha così l’impressione di assistere ad un grande affresco poetico quasi del tutto sganciato da qualsiasi riflessione sui destini e le sofferenze di una poetessa e del suo popolo.

(umberto@uerre.it)

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